2.12.14

Che cosa non funziona nell’antimafia (Livio Pepino)

Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa
La notizia viene battuta dalle agenzie il 18 ottobre: «Il 61% dei disoccupati è disposto ad accettare un posto di lavoro in un’attività dove la criminalità organizzata ha investito per riciclare il denaro e quasi uno su dieci (l’8%) è pronto anche a commettere reati. […] La criminalità organizzata trova terreno fertile nel tessuto sociale ed economico indebolito dalla crisi come dimostra il fatto che mafia, camorra, ’ndrangheta e company possono contare su un esercito potenziale di ben 230mila persone che non avrebbero problemi a commettere consapevolmente azioni illegali pur di avere un lavoro». 
È quanto emerge da un’indagine della Coldiretti, predisposta sulla base di dati della Ixé Sondaggi, presentata al Forum internazionale dell’agricoltura e dell’alimentazione di Cernobbio. Sempre secondo l’indagine, l’allentamento della tensione morale nei confronti della malavita provocato dalla crisi «tocca la vita di tutti i giorni come conferma il fatto che quasi un italiano su cinque (18%) non avrebbe problemi a recarsi in una pizzeria, ristorante, bar o supermercato gestito o legato alla criminalità organizzata purché i prezzi siano convenienti (9%), i cibi siano di ottima qualità (5%) o addirittura se il posto sia comodo e vicino a casa (4%)».
I sondaggi sono spesso ballerini e opinabili (anche perché legati al contesto in cui vengono realizzati e al modo in cui sono poste le domande) ed è, dunque, meglio maneggiarli con prudenza. E tuttavia, al di là delle singole entità percentuali, essi indicano delle linee di tendenza non esorcizzabili. 
Nel caso specifico, il dato univoco è l’abbassamento della guardia sul tema della legalità e, specularmente, sul rapporto con le mafie e la criminalità organizzata e sull’accettazione di comportamenti apertamente illegali. Abbassamento della guardia, si è detto, ché i cedimenti sul punto non sono una novità, se è vero che le rilevazioni annuali sulla “percezione mafiosa” condotte dal Centro “Pio La Torre” nelle scuole continuano a fornire esiti allarmanti: dei 1.126 studenti intervistati in 94 scuole nei primi mesi del 2014, solo l’11,73% ritiene che lo Stato sia più forte della mafia, mentre per il 53,32% la criminalità è più forte e la restante parte non ha un’opinione precisa; inoltre solo il 23,55% ritiene che sia effettivamente possibile sconfiggere la mafia.
Ciò impone al variegato arcipelago dell’antimafia un’analisi non rituale per capire che cosa “non funziona” e che cosa occorre modificare. Qualcuno ha, da tempo, cominciato a farlo, come documenta l’ultimo approfondito lavoro di Nando dalla Chiesa La scelta Libera. Giovani nel movimento antimafia (Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2014). Su queste pagine il tema è stato ripetutamente ed esplicitamente posto. A fronte degli orientamenti richiamati conviene, oggi, tornarci, seppur in estrema sintesi, indicando alcuni banchi di prova non rinviabili.
Primo. La retorica celebrativa e acritica non giova all’antimafia e, anzi, ne allontana i più sensibili e i più determinati. Se in manifestazioni o celebrazioni stanno sullo stesso palco politici o rappresentanti istituzionali corrotti (o amici di corrotti) ed esponenti dello schieramento antimafia, è quest’ultimo ad esserne ferito e a perdere di credibilità e capacità attrattiva. E quando poi nello stesso movimento antimafia compaiono personaggi compromessi (o che si scoprono tali strada facendo) è l’idea stessa di contrasto delle mafie, in mancanza di una immediata ed esplicita presa di distanza, ad essere gravemente indebolita. Non sono le affermazioni di principio ma i comportamenti ad essere determinanti. Del resto è raro sentire l’elogio della corruzione o della illegalità, ma ciò non basta a ostacolarne il prosperare…
Secondo. Lo abbiamo detto e scritto più volte. Le mafie non sono figlie della povertà e dell’arretratezza e hanno, al contrario, una straordinaria capacità di adattamento alle diverse situazioni sociali. E tuttavia è indubbio che povertà, diseguaglianza, marginalità sono serbatoi favorevoli alla loro espansione. La forza delle mafie – che le distingue da altre forme di criminalità tout court – è il consenso sociale di cui godono, che può essere eroso solo con modelli e pratiche di reale giustizia sociale. Non c’è bisogno di estremismi politici o verbali. Basta ricordare le parole del generale Carlo Alberto dalla Chiesa in una nota intervista a Giorgio Bocca, alla vigilia del suo assassinio: «Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi, caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati».
Terzo. Se è vero quanto precede, l’antimafia o è antimafia sociale e dei diritti o non è (e non serve trincerarsi dietro questa o quella, pur importante, vittoria sul piano militare). Superfluo dire che questa impostazione vale anche quando comporta scelte divisive, come oggi si usa dire, e magari scontri che minano unanimità di comodo.


narcomafie.it – 3 novembre 2014

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