20.12.14

Ricucire le periferie (Livio Pepino)

Periferia londinese
In questo finire di 2014 sono le periferie romane e milanesi a riempire le cronache. Storie a prima vista diverse: da una parte le avvisaglie di pogrom nei confronti di una struttura di accoglienza per giovani stranieri e di un campo nomadi; dall’altra scontri ripetuti con le istituzioni locali e le forze di polizia per difendere le proprie case, occupate talora da dieci anni e più. Eppure le differenze sono solo apparenti o, meglio, riguardano solo la superficie. E il problema – aldilà delle apparenze – non è il razzismo, pur evidentemente presente in alcune posizioni, e neppure la strumentalizzazione di situazioni di disagio da parte di mestatori di CasaPound o della criminalità autoctona infastidita dalla crescita dei controlli (pur esistente e documentata in alcuni reportages giornalistici). Il problema, vero e profondo, sono le periferie.
Le periferie, le banlieues, i ghetti. Luoghi dimenticati che, periodicamente, si accendono. Anche in paesi ritenuti tranquilli e tolleranti. Soprattutto nei periodi di crisi economica. Con interscambi di ruolo tra aggressori e vittime. All’apparenza senza avvisaglie, tanto da indurre un osservatore attento come Jean Daniel (direttore del «Nouvel Observateur») a dare a una sua raccolta di scritti al riguardo il titolo “Ribelli in cerca di una causa”. Eppure è dalla fine degli anni Settanta che sommosse, riots, esplosioni di violenza si rincorrono dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Germania. L’Italia, sino ad oggi, ne è stata sostanzialmente risparmiata ma è facile prevedere che anche nelle periferie del nostro Paese i fuochi si accenderanno ancora. Fuochi di diverso segno, secondo quanto l’esperienza comparata insegna. A volte contro i migranti, altre volte appiccati dai migranti (ipotesi meno frequente in Italia sol perché la struttura prevalente delle nostre città non prevede, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti o in Francia, quartieri abitati da soli immigrati e cittadini di origine straniera).
Il fatto è che alcune periferie, per chi non le abita, esistono solo quando si incendiano. Il governo delle città guarda sempre più solo alla vetrina del centro e ai quartieri residenziali. Mentre quelle periferie, un tempo dormitori, diventano luoghi di abbandono, di degrado, di non vita. Così la periferia geografica si trasforma in periferia economica, sociale, culturale. Concentrazione di miseria, disoccupazione, dispersione scolastica e via seguitando. Mix esplosivo soprattutto nei momenti di crisi. Quando l’aumento delle situazioni di povertà e il ridimensionamento degli investimenti pubblici di welfare attivano le guerre tra ultimi o degli ultimi contro i penultimi. E quando si misurano gli effetti di politiche abitative di corto respiro che, lungi dal favorire la convivenza, alimentano un’illegalità diffusa su cui spesso di innestano gli interessi della criminalità.
Inevitabili, dunque, disordini, scontri, sommosse. Anche se, per lo più, si tratta di esplosioni che, come le jacqueries medioevali, si concludono – come è stato scritto – «senza un visibile esito politico, eruzioni saltuarie di un fiume di scontento che scorre sotterraneo, per un istante prorompe in superficie e poi riprecipita nel sottosuolo dell’inconscio sociale».
Che fare, in questa situazione? Nell’immediato, esserci da parte di politici e amministratori: ricevendo contestazioni e insulti ma, insieme, marcando un interesse e cominciando a conoscere i problemi. E, oltre ad esserci, intervenire sugli aspetti più macroscopicamente carenti: i servizi e i collegamenti, la pulizia e l’illuminazione, il sostegno scolastico e i luoghi di incontro… Ma la cosa più importante è la prospettiva. Quelle periferie non possono restare così. Devono, progressivamente, restringersi e cambiare natura. È un operazione ciclopica, ma è la vera politica. Lo ha scritto nel gennaio scorso, in un articolo per «il Sole 24Ore» dal significativo titolo “Il rammendo delle periferie”, Renzo Piano. Vi si legge, tra l’altro: «Il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana. […] Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili? […] La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d’olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita […], costruire sul costruito. [E bisogna] portare in periferia un mix di funzioni. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università».
Una strada esiste. Chiara ed economicamente sostenibile, ché la prevenzione costa meno degli investimenti imposti dall’esplodere di patologie e conflitti. Non mancheranno altri disordini e sommosse, ma la strada per invertire la tendenza esiste. Non c’è, peraltro, molto tempo per evitare che la situazione degeneri in modo irreversibile.


Narcomafie 12/12/2014

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