24.2.16

La Fiat di Valletta. Foa racconta: “Di Vittorio non capì” (Simonetta Fiori)

In quegli anni, gli "anni duri" della restaurazione e della guerra fredda, Vittorio Foa lavorava nella segreteria della Cgil al fianco di Giuseppe Di Vittorio. "Un giorno", racconta nel bel libro autobiografico pubblicato da Einaudi, Il Cavallo e la Torre, "Bruno Trentin ed io ci accorgemmo che Di Vittorio voleva incontrare Valletta per richiamarlo ai principi di umanità. Insieme esercitavamo la massima sorveglianza per impedirglielo. Ma ci scappò di mano e lui andò lo stesso a Torino, tornandone ovviamente a mani vuote. E molto turbato".
Foa, che cosa era successo?
"Di Vittorio, politico raffinato che tuttavia 'sentiva' la fabbrica in termini di solidarietà e non di specificità, aveva sottovalutato un aspetto essenziale di Valletta: e cioè che egli s' era formato a una cultura del comando, verso operai e verso governanti. E il suo modo di proporsi si configurava unicamente come rapporto di forza. Una scelta assai più radicale rispetto alla stessa Confindustria diretta allora da Angelo Costa".
Possiamo considerare il vallettismo la versione italiana del maccartismo?
"La definizione mi sembra troppo forte, ma certo il vallettismo non era soltanto un modo di organizzare il lavoro e la produzione. Era anche un'attiva scelta politica. Non credo sia giusto ritenere che la disciplina così rigida instaurata alla Fiat rispondesse solo a criteri di organizzazione del lavoro e neppure che fosse un semplice riflesso della guerra fredda e dello scontro durissimo con i social-comunisti. Valletta faceva politica, comportandosi da ministro di polizia - ricordo la schedature degli operai Fiat e la condanna in primo e secondo grado dell'avvocato Garino, capo del personale - e da ministro degli Esteri".
In che senso?
"Un episodio: nel 1954 Valletta incontrò a Roma, all' ambasciata Americana, l' allora rappresentante Booth Luce. La rozzezza dell' ambasciatrice era nota in tutto il mondo. In quel periodo si dava da fare perché Valletta licenziasse tutti i comunisti. Lui tendeva a frenarla, ma in sostanza le dava assicurazioni, come risulta dai documenti pubblicati da Gian Giacomo Migone sulla “Rivista di storia contemporanea”. Ricordo che Valletta, quasi a sua discolpa, si giustificò con la Luce accampando di trovarsi in 'una situazione forzatamente democratica' : insomma, non poteva mica licenziarli proprio tutti...".
Come si viveva allora alla Mirafiori?
"Le paghe erano molto basse, il lavoro pesante, la disciplina oppressiva. Era l'epoca dei reparti-confino, nei quali venivano isolati i dipendenti più attivi politicamente perché non contagiassero tutti gli altri. Questi operai erano gli stessi che avevano collaborato attivamente alla ricostruzione dopo la guerra". Chi c'era? "Tanti, tantissimi. C'era Fernando Bianchi, coordinatore delle commissioni interne alla Fiom, giaccone nero e motocicletta. C'era Dino Pace, futuro dirigente di rilievo della Cgil piemontese. C'erano Giovanni Longo, Vito D' Amico e Giovanni Roveda... E c' era la memoria storica del movimento operaio, come Luigi Battista Santhià, collaboratore di Gramsci all'Ordine nuovo, e Giovanni Parodi, segretario del consiglio di fabbrica durante l'occupazione nel settembre del 1920: una fotografia lo ritrae nello studio di Giovanni Agnelli senior. E vorrei ricordare anche gli uomini del sindacato - Egidio Sulotto, Sergio Garavini e Gianni Alasia, Emilio Pugno e Bruno Fernex - un gruppo culturalmente moderno, per certi aspetti più avanti della stessa Cgil e del Pci".
Ma la Fiom non fu mai percorsa da radicalismo antindustriale? Non diede mai pretesti a Valletta per la sua azione repressiva?
"La Fiom non fu mai contagiata da umori antindustriali. Oggi si ricorda con ironia il famoso convegno sul 'supersfruttamento': in realtà quella parola serviva ad indicare la fatica fisica e psicologica derivante dai ritmi di lavoro. Un problema eterno. E vorrei far riflettere su un fatto: quando nel 1955 la Fiom perse le elezioni per le commissioni interne, non si trattò soltanto della sconfitta di una linea sindacale, ma si trattò soprattutto della vittoria della Fiat. Tant'è vero che tre anni più tardi la Cisl, vincitrice di quelle elezioni, si sarebbe divisa al proprio interno, abbandonando la sfera aziendalistica per tentare il dialogo con una Fiom cambiata".
C'è un suo ricordo personale di quegli anni?
"Erano tempi terribili, in cui il governo sparava su contadini ed operai. In Parlamento le sedute erano incandescenti. Il mio amico Antonio Giolitti mi raccontava ieri che, dopo i tumulti, ci si doveva occupare dei commessi contusi e feriti. Una volta il deputato comunista Di Mauro, segretario della Camera del Lavoro di Catania, s'avventò sul banco del governo per mordere all'orecchio il ministro dell'Interno Mario Scelba. Quarant'anni dopo, vedendo alcuni parlamentari sulla stessa china, mi accorgo di quanto siano conservatori".
Quant'è rimasto del vallettismo oggi alla Fiat?
"Il vallettismo come disciplina discriminatoria non c' è più da un pezzo. Ma è rimasta l' idea della propria infallibilità, ossia il primato del comando".


la Repubblica, 4 marzo 1993  

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