24.2.16

Adozioni. Più figli per tutti (Roberta Carlini)

Etero, gay o single, una casa per tutti i bambini
Se l’Italia alla fine avrà la legge che riconosce le unioni omosessuali, resterà comunque una grave discriminazione nel nostro Paese. Le coppie dello stesso sesso continueranno a non poter adottare. La stessa possibilità sarà negata ad aspiranti genitori single. Mentre per mesi il dibattito politico si è intestardito e incarognito attorno alla stepchild adoption, poco o niente si è detto del divieto principale: quello che impedisce a omosessuali e non accoppiati persino di essere presi in considerazione come potenziali buoni genitori. Una battaglia rinviata, una dimenticanza, o una rimozione, che corre parallela alla grande crisi delle adozioni?
Le parole hanno la loro importanza, e danno importanza. Fino a qualche tempo fa, per “adozione” si intendeva un incontro tra mondi in un certo senso alieni: tra un figlio in cerca di genitori e potenziali genitori in cerca di figli. Da una parte, un bisogno, codificato nel diritto di ogni bambino ad avere una famiglia; dall’altra, un sogno, un progetto, e una disponibilità. La stepchild adoption, ossia l’adozione del figlio del coniuge, era ed è una delle fattispecie di “adozione in casi particolari”: il riconoscimento di un legame di fatto già esistente, più che la ricerca di un incontro o la realizzazione di un progetto. Prima consentito solo alle coppie sposate, poi esteso dalla giurisprudenza anche ai conviventi. Come mai allora da “caso particolare” è diventato quello centrale, e dunque casus belli sul quale cercare addirittura di affossare il primo riconoscimento giuridico in Italia delle coppie omosessuali?
In parte, questa attenzione unica, poi diventata ossessiva, alla adozione del figliastro è dovuta allo stesso impianto minimalista della legge, che nasce come un compromesso: non è un vero matrimonio, non si può fare una “vera” adozione. Vedendo il lato positivo, si può aggiungere però che così almeno si interviene su quel che già c’è, e si dà il giusto riconoscimento a legami che si sono creati, che coinvolgono bambini in carne ed ossa, biologicamente figli di uno dei membri della coppia ma accolti e amati da entrambi. Ma l’attenzione esclusiva sulla stepchild si è poi infiammata su altro: il potenziale legame con la pratica, illegale in Italia, della gravidanza surrogata. Sarebbe ipocrita negare questo nesso. Ma è del tutto strumentale, e anche intellettualmente disonesto, agitarlo per bloccare le unioni civili: sarebbe come voler abolire, per tutte le coppie etero, la possibilità di stepchild adoption, poiché attraverso questa finestra può entrare quello che il nostro ordinamento vieta, ossia la pratica, consentita in altri Paesi, dell’utero in affitto. Oppure – allargando lo sguardo – abolire le adozioni tout court, poiché in giro nel mondo c’è qualcuno che pratica commercio di bambini.
Alla parte più reazionaria dell’Italia, quella che non vuole ammettere che la famiglia è cambiata, non è parso vero potersi concentrare sul fantasma per negare la realtà. La parte più progressista, quella che vive già nella realtà la stabilità – o anche l’instabilità, moneta corrente per tutti – delle coppie omosessuali, vive da lontano, come un po’ lunare, la discussione parlamentare su commi e “canguri” dai quali dipende il proprio futuro. Ma anche questa parte progressista ed emancipata ha tralasciato la battaglia per l’adozione alle coppie gay e ai single. Forse perché ha pensato che fosse una battaglia persa in partenza. O perché, come raccontiamo nell’inchiesta di questo numero di pagina99, l’adozione, nazionale e internazionale, è una realtà in declino. È drastico il calo dei bambini adottati, e parallelamente sono scese anche le domande da parte delle famiglie. Ci siamo chiesti se si tratti di un cambiamento indotto da fattori materiali: scoraggiamento per adozioni sempre più difficili, condizioni esterne complicate, soprattutto sullo scacchiere internazionale, burocrazia ostile, costi crescenti e insostenibili in tempi di crisi. Oppure se su questo cambiamento incidano anche fattori culturali, un maggior favore verso il figlio “proprio” (anche solo per metà) o addirittura un’ossessione genetica favorita dai progressi nelle tecniche della riproduzione. Domande enormi e dalle risposte non definitive; però uno sguardo sul campo dice che prevale lo scoramento, per un’impresa che si è fatta sempre più difficile, a volte impossibile. Non tanto e non solo perché “ci sono pochi bambini”, ma perché la macchina per far funzionare quel miracoloso incontro tra alieni va mantenuta, oliata, nutrita, aggiustata col mondo che cambia. Va aperta, smontata e rimontata.
Ecco perché abbiamo voluto titolare, echeggiando uno slogan, “più figli per tutti”. In un’Italia che fa sempre meno figli e che sembra chiudersi su se stessa anche nella disponibilità ad accogliere i figli degli altri, l’unica possibilità è rilanciare e aprire. Aprire le famiglie esistenti (tutte) a minori che una famiglia non ce l’hanno. E aprire le nostre teste di fronte alla realtà del fatto che le famiglie, felici o infelici che siano, forse non si somigliano tutte ma sono tutte uguali.


Pagina 99 we, 13 febbraio 2016

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