1.3.16

Tradizioni ebraiche. Rompete i bicchieri (Giulio Busi)

Sposo ebreo procede alla rottura rituale del bicchiere
Un calice rotto in mille pezzi, con un bel rumore secco, e più fa fracasso, miglior fortuna porta. Del rito matrimoniale ebraico, antico e arcano, la rottura del bicchiere da parte dello sposo è il simbolo più enigmatico. È forse in memoria della distruzione di Gerusalemme, lutto portato sempre, anche nella festa più gioiosa? Oppure il cristallo che si spezza ricorda la frattura dei vasi cosmici, che per i cabbalisti ha dato origine al nostro mondo, rabberciato e tutto da riparare? Qualcuno pensa che quel gesto sia metafora dell’apertura dell’imene, una deflorazione in vetro.
A cercar tra le schegge, spunta però un ospite che nessuno vuole, un demone, o molti brutti ceffi suoi pari, che portano male, chi mai li ha invitati? Il botto, la coppa nuova schiantata a terra, potrebbero essere altrettanti accorgimenti per placare e scacciare le forze cattive, che a procurar danni ci vanno, appunto, a nozze. O almeno così era in antico, quando nacque l’usanza. A poco a poco, col rabbonirsi dei demoni (chissà se è vero!) e con il progresso, del vecchio malocchio s’è perso il ricordo, e son restati solo i frammenti sparpagliati tra moglie e marito. Uno per cerimonia, pensate quanti bicchieri rotti sono nascosti tra le pagine dei contratti matrimoniali, le ketubbot, della raccolta Fornasa di Sermide, nel Mantovano, di cui ora si pubblica il catalogo (Sofia Locatelli, Mauro Perani, Le ketubbot italiane della collezione Fornasa, Giuntina, Firenze). Da Ancona a Firenze, da Roma a Mantova, e fino a Gibilterra, e dal Seicento fino all’Ottocento, decine e decine di pergamene ricordano nomi, date, luoghi, e raccontano di un giudaismo italiano tenace e gioioso. Dei demoni nessuna traccia. Che si tengano pure i loro cocci - basta che se ne stiano alla larga, che qui ci si ama.


Il sole 24 Ore Domenica, 28 giugno 2015

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