28.4.16

“1984” di Orwell e lo stalinismo (Aldo Natoli)

George Orwell
Il 28 aprile 1984, esattamente 34 anni fa, all'interno di un convegno-seminario su Il futuro come presente, organizzato dalla facoltà di Lettere della locale università, si svolse a Venezia un dibattito sul nesso tra il celebre 1984 di Orwell e lo stalinismo. Ne discussero Charles Bettelheim, Paul Seeezy e Aldo Natoli. Della relazione di quest'ultimo “il manifesto” propose ai lettori la parte centrale, quella che qui riporto. (S.L.L.)
Stalin
Hanna Arendt, ispirandosi al nazismo e al regime staliniano della seconda metà degli anni ’30, ha descritto un tipo di regime totalitario la cui vera essenza è il terrore. Tuttavia in tale regime la propaganda conserva ancora una funzione, sia pure soltanto come uno strumento nei rapporti con il mondo esterno. Ed anche l’uso del terrore ha una sua flessibilità, non esclude affatto l’esistenza di aree di consenso passive ed attive.
In 1984 invece (curiosamente Orwell è tptalmente ignorato dalla Arendt) non esiste più un mondo esterno, la propaganda ha cessato di esistere, come pure il consenso. Ci troviamo di fronte ad un regime di puro dominio, che non ha più bisogno di egemonia. Il terrore è una sorta di a priori, assoluto e permanente, non è più uno strumento, ma l’elemento costitutivo del potere. Solo per questo esso può scatenare processi di mutazione della natura stessa dell’uomo nel senso di abolizione della sfera della privatezza, dei rapporti interpersonali, dei sentimenti della memoria, della conoscenza autonoma. L’interiorizzazione del terrore riduce il singolo a mero oggetto del potere. Per Marx l’individuo era l’insieme dei suoi rapporti sociali. Nel mondo di Orwell l’individuo non può sussistere che come un insieme di rapporti statali. Società e privatezza sono totalmente assorbiti nella trama ubiquitaria del potere e questo si concentra nell’immagine di un capo onniveggente e infallibile, che in ogni luogo vede e parla da un teleschermo. Così pervade ed occupa la dimensione intima che già era stata quella della coscienza del singolo.
Ne consegue che i fatti della realtà presente e passata (la storia) perdono ogni consistenza oggettiva. Tutti possono essere rifabbricati secondo la sola verità ammessa dal potere, nessuna alternativa, variante o sfumatura è ammessa. La legge ha una corda sola, una sola lettera. A questo punto l’esigenza di un linguaggio stereotipato, che non lasci spazio alcuno alla espressione della fantasia, diventa una logica necessità. Se il verbo era all’origine dell’universo dell’uomo, il compiersi della disumanità deve coincidere con l’abolizione della parola. La totale alienazione implica la cessazione di ogni comunicazione, fuori dalle disposizioni anonime del potere. Ogni residuo conato espressivo è trasgressione. La privatezza è di per sé e in qualsiasi forma, trasgressione. Massima trasgressione sarà l’amore perché ricostituisce il microcosmo dell’individuo sensibile, avente il proprio fine in sé e nell’altro, nel quale è pronto ad annullarsi?
Ciò è incompatibile con l’universo statale-vegetativo di Orwell e il suo totale annientamento è la condizione per la sopravvivenza in quella dimensione. La tortura più orribile cui Winston, alla fine, sta per essere sottoposto, non ha lo scopo di strappargli alcun segreto (egli non ne ha mai avuto e non ne ha alcuno), ha lo scopo di sradicare e annientare in lui il desiderio e la capacità di trasferire le ragioni della propria vita in un altro essere, Giulia. Quando Winston arriverà a negare totalmente tale impulso, chiedendo che non lui stesso ma «l’altro» al suo posto sia sottoposto al supplizio estremo, questo cesserà immediatamente perché l’ultima scintilla di umanità sarà ormai estinta e con essa l'origine stessa della trasgressione.
Orwell proietta nel 1984 e su scala mondiale l’incubo del terrore totale. È l’espressione del profondo pessimismo e del rifiuto della utopia cui era approdato. Non proverà mai più l’improvviso fervore, la travolgente simpatia che ha sentito in un giorno del dicembre 1936 nella caserma Lenin di Barcellona, dove stava arruolandosi come miliziano, per un operaio italiano, che, anche lui è accorso volontario in difesa della repubblica e in nome dell’internazionalismo :
In 1984 questi moti del cuore sono semplicemente impensabili, non esistono mai e non possono esistere nel racconto perché essi sono da tempo estinti nel narratore e questi non riuscirà mai a rivivere una emozione paragonabile neanche in un solo attimo dell’avventura di amore di Winston e di Giulia.
1984 è la proiezione nel tempo e nello spazio, fino a pervaderli totalmente, della disumanità del potere e, anche e di conseguenza, degli effetti devastanti che quella produce nel cuore degli uomini. Il terrore come potere totale, ha la dinamica di un universo in espansione : invade tutto il pianeta, abolisce la storia dell’uomo, ne aggredisce la natura.
Fosca utopia della disperazione, contiene certamente un monito ma nessuna via di scampo. Orwell muore agli inizi degli anni ’50 e lascia ai posteri solo gli incubi della sua ragione, il suo teorema poggia su basi oggettive inoppugnabili, ma la sua dimostrazione non semplificherà fin oltre l’assurdo gli eventi di una storia che non è stata ancora abolita? Fra il 1948 e il 1949 egli aveva potuto riconoscere in Unione sovietica la nuova fase di terrore (l'«affa re» di Leningrado, la campagna antisemita condotta sotto l’etichetta della lotta contro il cosmopolitismo), che caratterizzò gli ultimi anni di Stalin e che, dopo la morte di Orwell, culminò in Unione sovietica con la fabbricazione del «complotto dei medici», in Cecoslovacchia e in Ungheria, rispettivamente, con i processi contro Slansky e Rajk.
Ma, a partire dalla primavera del 1953, subito dopo la morte di Stalin, fin dai primissimi atti dei suoi successori fu chiaro che la via della restaurazione del terrore assoluto veniva decisamente scartata (era infatti impraticabile), gli strumenti poliziesco-militari necessari per la sua attuazione erano ridimensionati e ricondotti sotto il controllo politico e il sistema del potere, senza perdere nel complesso le sue caratteristiche specifiche, veniva orientato verso una parziale ricerca del consenso.
I confusi conati riformatori di Khrusciov ebbero questo significato : i provvedimenti per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini, le prime modificazioni del rapporto fra industria pesante e industria leggera, i miglioramenti delle retribuzioni, la campagna per il dissodamento delle terre vergini.
Così pure le misure intese a combattere il prepotere della burocrazia (pur rimaste senza successo). Infine, e soprattutto, la denuncia clamorosa (al XX e al XXII congresso del Pcus) dei “delitti e delle violazioni della legalità2 commessi sotto Stalin. Quella denuncia aveva lo scopo di rendere impossibile un ritorno al regime del terrore assoluto, sconfiggendo definitivamente quelli che, nel gruppo dirigente del Pcus potevano esserne gli assertori. Chiaramente dirette alla conquista del più ampio consenso furono la svolta nella politica estera con la proclamazione della possibile apertura di un’epoca di coesistenza pacifica a livello mondiale e, sul piano interno, la redazione di un nuovo programma del partito che annunziava l’inaugurazione dell’era del comunismo a partire dal 1980.
Naturalmente non è possibile qui procedere ad una analisi dettagliata e profonda di questo periodo, lo si ricorda solo per sottolineare che esso, pur mantenendo intatte, lo ripeto, le strutture di potere e il rapporto stato-società che erano stati costruiti a partire dalla fine degli anni ’20, operava in quell’ambito una svolta profonda, nel senso di ricondurre il sistema ad una sua normalità repressiva di dominio ma anche di conati egemonici, escludendo il ricorso ad amministrare mediante il terrore. In questo senso si può dire che il khrusciovismo, riproponendo come attuali per quel sistema, la ricerca e la conquista del consenso passivo ed attivo, segnò un momento importante per la fuoriuscita dall’universo del terrore staliniano. Sottolineo «dal terrore staliniano», non dal sistema istituzionale-politico, non dal rapporto stato-società costruiti nel periodo staliniano.
Entro quell’ambito la inveterata rigidità del sistema cominciò ad essere intaccata dalla apertura di limitati spazi di iniziativa decentrata. Ciò avveniva con il controllo e per impulsi «dall’alto» per cui non si può parlare, a mio avviso, come pure da qualche parte si è fatto, di «pluralismo embrionale». È vero pero che la rinunzia al tenore come strumento essenziale del potere apriva la strada e rendeva possibile, e perfino necessaria una articolazione di snodi fra stato e società e all’interno di questa.
Il fatto più rilevante fu l’allentamento della pressione statale sui contadini (una volta assolti gli obblighi verso gli ammassi, adesso potevano decidere sull’uso delle proprie risorse, il che implicava una certa libertà nelle scelte produttive e una estensione di rapporti con la sfera di mercato); il fatto più vistoso fu un certo rilassamento del controllo ideologico cui corrispose una limitata ripresa di libertà intellettuale (il «disgelo») nelle arti e nella ricerca storica e scientifica, come pure una nuova, e più ampia circolazione di informazione (fu ripresa, fra l’altro, la pubblicazione dei resoconti stenografici dei dibattiti del comitato centrale del Pcus, che era stata interrotta dal 1928). 
Si riaprì anche la discussione pubblica sui problemi di fondo dell’economia, in particolare il rapporto fra pianificazione e mercato. Tutti questi spiragli saranno presto chiusi, già negli ultimi anni di Khrusciov, non senza però aver contribuito alla nascita di fenomeni come il “dissenso” e il “samisdat”.


“il manifesto”, 28 aprile 1984

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