16.4.16

Sussulti, e grida, e contorcimenti. Il bimbo della marchesa Colombi

Marchesa Colombi fu lo pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (Novara 1846-Milano 1920), una scrittrice e giornalista che fece parte del primo movimento italiano per l'emancipazione femminile, nel giro di Anna Maria Mozzoni. Fu anche moglie, dal 1975, di Eugenio Torelli-Viollier, il fondatore e primo direttore del “Corriere della sera”, ma si separò presto da lui. Conferenziera efficace, è nota soprattutto come autrice di novelle e romanzi, originariamente pubblicati a puntate sulla stampa femminile o nei supplementi domenicali dei quotidiani.
È autrice anche di una sorta di galateo moderno, borghese La gente per bene. Leggi di cortesia, che uscì per la prima volta nel 1877 per le Edizioni del Giornale delle Donne e che trovò la sua forma definitiva, nella seconda edizione, “migliorata e accresciuta”, stampata nel 1878 dall'editore Morano di Napoli. Notevoli mi paiono del libretto, che ho trovato in una bancarella, la capacità di restituirci l'odore di un tempo e di un mondo perduto e l'ironia sempre garbata e talora pungente che accompagna la sua scrittura. Riprendo qui il primo capitolo della prima parte, intitolata Pagine rosee (S.L.L.)

Il bimbo
In tutte le leggi umane, ad ogni diritto fa riscontro un dovere. Ma il bimbo, piccino, inconsapevole, fragile come il vetro, ed imperioso come un sultano, fa solo eccezione alla legge generale.
Per lui tutto è diritto, nulla è dovere.
Gli Inglesi, più seri, più freddi di noi, malgrado le loro esclamazioni continue sulla famiglia, sull’Home, passano metà dell’anno girovagando in paesi stranieri, e pel poco tempo che rimangono at home, hanno provato il bisogno d’inventare la nursery, una camera a parte, dove relegano i bambini colle nutrici e le bambinaie.
Noi invece amiamo meglio la famiglia, la casa in cui passiamo tutta la vita. I bimbi non ci disturbano, non li isoliamo. Vivono con noi. Sono padroni di tutto 1’appartamento. Impariamo il loro linguaggio monco, e nell’intimità ne adottiamo la nomenclatura strampalata; li mettiamo a tavola con noi; vegliamo ai loro bisogni, li vezzeggiamo, li chiamiamo con nomignoli graziosi ed insensati, Ninì, Rirì, Lolò; conosco un bimbo che ha nome Fulvio, ed è chiamato Fufù.
È il giorno di ricevimento. La signora ha molte visite.
Ad un tratto risuonano alte grida; non ci si intende più a discorrere. È Mimì che si desta; e significa alla famiglia su cui regna, ch’egli è stanco della posizione orizzontale. La mamma sorride di beatitudine; se occorre, lascia un momento la compagnia e corre ad esprimere con un bacio la sua ammirazione per quelle gesta del piccolo despota. Nessuno pensa a biasimarlo ; figurarsi ! — Sono così carine e commoventi quelle note scordate d’una vocina di bimbo.
Mimì fa il suo ingresso in sala nelle braccia della nutrice. Qualche cosa di grave lo preoccupa ; s’ è sognato male ; è ancora di cattivo umore. Egli non si degna di salutare la compagnia ; all’ invito della mamma di compiere colla sua manina quell’ atto di civiltà, alza le spalline rosee, e nasconde il volto in seno alla balia, presentando la sua personcina... dal rovescio. È ancora nei suoi diritti. E poi Mimì è così bellino da tutte le parti.
Avete un amico di famiglia a pranzo; la mamma ha sorvegliato gli apparecchi con affetto. Mimì troneggia vestito di bianco sul seggiolotto.
Egli osserva che il babbo e la mamma fanno ogni maniera di cortesie a quel vecchio signore, che essi sono felici di ospitare. Pensa che egli pure deve, come rappresentante della famiglia, dimostrare la sua deferenza all’ospite intimo e caro. E togliendosi dai labbruzzi il proprio cucchiaino non completamente vuoto, lo porge rovesciato al vecchio commensale. Tutti sorridono. Mimì sente d’aver compreso bene il suo dovere, e per incoraggiare l’invitato ad accettare la sua offerta gli carezza il volto colla manina unta.... Com’è gentile Mimì!
Eppure Melchiorre Gioia dice che è atto inurbanissimo il palpare il volto ad un proprio eguale e peggio se maggiore d’età; e su questo argomento non transige neppure cogli Dei, e scaglia acerbi rimproveri ad Omero, per la sconvenienza d’averci rappresentata Teti, in atto di palpare volto a Giove. Ma il bimbo è più padrone nel mondo che gli Dei nell’Olimpo.
La nutrice entra con Mimì in una chiesa. Mimì ha il sentimento musicale sviluppatissimo. L’organo lo commove piacevolmente ; ed egli accompagna con modulazioni che va improvvisando quelle note solenni. Tutti si voltano, la nutrice gli dice che quella è la casa del Signore. Ma Mimì è superiore a queste considerazioni. I lumicini dell’altare lo divertono, è al colmo del tripudio, ed è troppo sincero ed espansivo per dissimularlo, e si dà a far galloria con sussulti, e grida, e contorcimenti.
Il sacerdote intuona le litanie, il pubblico fa coro. Quelle voci alte, discordi, stonate, offendono il senso artistico di Mimì. Egli esprime con alte strida il suo disgusto, la sua disapprovazione.
La balia ha avuto torto di esporlo a quella contrarietà. Ma Mimì ha ragione. Egli è logico e schietto. La sua legge è l’istinto. Non ne conosce altre.
Finché l'uomo non fruisce dell’intelligenza e della parola, i due grandi e fatali privilegi dell’umanità, il mondo non domanda nulla da lui...

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