16.7.12

Settembre 82. Dopo l'uccisione del generale Dalla Chiesa (Claudio Fava)

1982. Vito Ciancimino, Responsabile per gli Enti Locali della Dc siciliana
A Palermo trovammo una piazza densa, silenziosa, caricata come la molla di un orologio, livida per essere stata chiamata di nuovo a raccolta appena quattro mesi dopo la morte del segretario regionale del PCI Pio La Torre, ammazzato dalla mafia il 30 aprile 1982, pochi mesi dopo essere tornato in Sicilia. In quella piazza di poche parole e di poche bandiere si sentivano i segni di una stanchezza che cominciava a mostrarsi, la fatica di spiegare la corsa funesta che in quattro anni s'era portata via il capo della squadra mobile, il capo dell'ufficio istruzione, il presidente della Regione, un capitano dei carabinieri, il procuratore della Repubblica, il capo dell'opposizione e il prefetto. Pensavamo che quella mattina avremmo conosciuto il dolore. Invece scoprimmo la rabbia.
La rabbia di chi aveva memoria fresca di altri lutti e sapeva che quella commemorazione sarebbe stata l'unico rito concesso ai vinti, l'onore di povere armi caricate a salve, tanto il giorno seguente di quell'onore non sarebbe rimasta traccia, solo una piazza sporca, manifesti stracciati sui muri e un po' di fiori a macerare in via Carini. Il Paese, della mafia e dei suoi morti, tutto sommato se ne fotteva. Fu anche per questo che quando prese la parola il sindaco Nello Martellucci, quel prato di teste e di sguardi ostili ondeggiò, s'increspò, poi esplose in un boato di fischi che crebbero, s'arrampicarono addosso agli oratori fino a quando il sindaco fece un passo indietro e mollò il microfono, stupito e offeso.
Martellucci incarnava più d'ogni altro il segno di quei tempi. Aveva accolto Dalla Chiesa, spedito dal governo a Palermo per combattere la mafia con i galloni di prefetto, con lo stesso disprezzo della vecchia aristocrazia borbonica di fronte ai piemontesi: il prefetto chiedeva collaborazione e il sindaco gli rispondeva con discorsetti in bella calligrafia, epinici, iperboli, proverbi. Fino a quando in un'intervista spiegò che non è compito istituzionale di un sindaco combattere la mafia. Lo disse scandendo le parole e piazzandovi in conclusione un immaginario punto esclamativo. Carlo Alberto Dalla Chiesa lo ammazzarono quattro giorni più tardi. E quando Martellucci cercò di portare le sue parole ai funerali del prefetto, quel muro di fischi lo respinse indietro.
Ecco, fu per me la prima istantanea di ciò che sarebbe stata per molti anni ancora l'antimafia: risarcire con il proprio disprezzo l'impunità d'un certo potere. Pur sapendo che di quel disprezzo, di quei fischi, nessuno si sarebbe fatto carico. Il giorno dopo i funerali, Giovanni Spadolini, chiedendo la fiducia alla Camera per il suo secondo governo, fece un lungo discorso tacendo ostinatamente su ciò che era accaduto poche ore prima in Sicilia. E riuscendo a non pronunciare mai la parola mafia, né durante le dichiarazioni programmatiche né nella replica. Spadolini era uomo di mondo, sapeva che il suo governo si sarebbe tenuto in piedi anzitutto con i voti della Democrazia Cristiana, e non s'era mai visto nella storia repubblicana un presidente del Consiglio in pectore chiedere la fiducia alle Camere promettendo il proprio impegno nella lotta alla mafia.
Era un Paese impunito e sfacciato. La legge La Torre (la confisca dei patrimoni di Cosa Nostra e l'introduzione del reato di associazione mafiosa) andò in aula pochi giorni dopo l'assassinio del segretario comunista: e fu bocciata. Spiegarono i democristiani che occorreva ancora un supplemento di riflessione, che andare a ficcare il naso nei conti bancari dei cittadini era un passo grave, e poco importava che quei cittadini fossero mafiosi di nome e di fatto. Prima che quel supplemento di riflessione si esaurisse, il Parlamento aspettò che ammazzassero anche il prefetto di Palermo. E i poteri prefettizi straordinari, che Dalla Chiesa aveva inutilmente richiesto, furono concessi solo al suo successore.
In quel Paese che s'indignava fuori tempo, che coltivava memorie minime e considerava la mafia «una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» (parola del cardinale di Palermo Ernesto Ruffini), l'antimafia all'inizio fu una corda pazza che vibrava e diceva verità sgarbate. Era il senso d'impotenza di una società civile disarmata ma anche la sua ribellione allo scempio della verità che si consumava senza incontrare ostacoli. Era la scelta di gesti brevi e ultimi, come l'intervista che Nando Dalla Chiesa rilasciò cinque giorni dopo l'agguato di via Carini. «Penso che l'assassinio di mio padre sia un delitto politico deciso e commesso a Palermo. E che i suoi mandanti vadano ricercati nella Democrazia Cristiana siciliana.»
La risposta della DC fu affidata al suo responsabile per gli enti locali, Vito Ciancimino. Tre parole in tutto: «Una ricostruzione fumettistica».

Da I Disarmati. Storia dell'Antimafia: i reduci e i complici ,Sperling & Kupfer, 2009

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