6.12.15

Agricoltura. Il tesoro italiano è nascosto nei campi (Roberta Carlini)

Bene la produzione, ancor meglio l’occupazione, benissimo l’export. C’è un settore in Italia che traina, ed è quello più nascosto. Più basso, come la terra: l’agricoltura, che nel primo trimestre del 2015, ha collezionato numeri da sballo. E poteva andare anche meglio, senza ostacoli climatici (le alluvioni) e politici (le sanzioni alla Russia), dice la Coldiretti. Ma anche così, in un inizio anno in cui ci si entusiasma per incrementi di zero-virgola-qualcosa, l’agricoltura vanta cifre tonde e piene.

Annunciata con grancassa dai più interessati degli ottimisti, la ripresa italiana finora documentata è chiusa in un decimale risicatissimo: più 0,1 per cento, per il primo trimestre del 2015. Ma per il settore agricolo il ritmo è doppio: il prodotto interno lordo dell’agricoltura, secondo i conti economici trimestrali dell’Istat, ha segnato infatti un incremento tendenziale – cioè, misurato sullo stesso periodo dello scorso anno – dello 0,2 per cento. Rispetto al trimestre precedente, il balzo in avanti è del 6 per cento: negli stessi mesi l’industria cresceva, rispetto al trimestre precedente, solo dello 0,6 per cento, mentre i servizi restavano fermi.
All’aumento del prodotto è corrisposto un aumento delle braccia. Dei 133mila occupati in più del primo trimestre del 2015, 45mila sono nell’agricoltura. E poiché il settore è molto piccolo rispetto a industria e terziario, in termini percentuali l’aumento spicca decisamente: rapportati al primo trimestre dello scorso anno, gli occupati in agricoltura sono il 6,2 per cento in più, contro un aumento complessivo dello 0,6 per cento. L’aumento di occupazione, così come quello della produzione, riguarda nord e Mezzogiorno, mentre il centro soffre di un calo di entrambi.
La terza voce è quella che, in gran parte, spiega le prime due: le esportazioni. Che, nel primo trimestre dell’anno, registrano un aumento del 7,8 per cento per il settore agricolo – che, sommato a quello del 5,8 per cento dei prodotti dell’industria alimentare, porta a un più 6,2 per cento dell’agroalimentare nel suo complesso: il doppio dell’incremento dell’export totale dell’Italia verso l’estero.
“Poteva andare anche meglio, se non ci fosse stata la chiusura del mercato russo e l’impatto di eventi climatici negativi, in particolare forti piogge e alluvioni”. Lorenzo Bazzana, della Coldiretti, sostiene che i buoni dati del primo trimestre potrebbero essere addirittura sottodimensionati.
Da tempo la sua organizzazione, e le altre del settore, battono sul tasto dolente delle sanzioni che bloccano le esportazioni in Russia e rendono più forte la concorrenza sui mercati europei. In più, ci sono le crisi del Mediterraneo, che hanno prosciugato i mercati di paesi nei quali l’export agricolo italiano era abbastanza forte.
Ma poi c’è il resto del mondo, e quella svalutazione dell’euro piovuta come una manna dal cielo. L’export agricolo italiano, spiega Bazzana, cresce in tutti i paesi fuori dell’Ue (fatta eccezione, appunto, per Russia e paesi del nord mediterraneo). Se si guarda a tutto l’agroalimentare, nel 2014 sono stati superati i 34,5 miliardi di esportazioni (più 2 per cento sul 2013) e ormai sono in molti a credere che si possano raggiungere entro breve i 50 miliardi di export.
È vero che l’euro debole riguarda tutti i settori, ma a quanto si vede l’agricoltura se ne avvantaggia di più, le mele vanno meglio delle auto. Come mai? “Be’, l’agricoltura non si può delocalizzare, la terra sta qua”. E sulla terra devono stare anche quelli che la lavorano. Così, il settore ha risentito di meno dei lunghi anni della crisi, e la sua reazione alla ripresa internazionale e alle condizioni favorevoli esterne è stata più immediata, e sensibile. Se la ripresa economica italiana è trascinata soprattutto dalle esportazioni, tutto il settore agricolo è il primo dei convogli trainati, meglio piazzato di tutti gli altri.

Lavoro ad alta intensità
L’aumento dell’occupazione è arrivato prima di quello della produzione, ed è stato anche più forte: più 6,2 per cento. Il nord se ne è preso la fetta maggiore (più 16,1 per cento), il Mezzogiorno ha visto un incremento del 4,4 per cento, mentre il centro ha perso l’11,5 per cento degli occupati agricoli. È ancora presto per dire chi sono i nuovi occupati e che contratti hanno, ma è molto probabile che il Jobs act non c’entri molto. L’aumento, dice l’Istat, ha riguardato sia gli autonomi sia i dipendenti. Tra questi ultimi, i dati del 2014 dicono che i rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono solo il 15 per cento del totale: tutto il resto è fatto di contratti a tempo determinato.

Operai agricoli a tempo indeterminato
Area     2012            2013                   2014
Nord    58,944        96,079                93,910
Centro 21,820        33,458                32,527
Sud      23,761        38,855                36,211
Isole    10,870        16,954                 16,441
Italia 115,395      185,346                179,089
Fonte: Istat

Quanto alla provenienza della manodopera, ultime stime disponibili vedono una presenza del lavoro degli stranieri, comunitari ed extracomunitari, attorno al 36 per cento.
Va detto che per l’agricoltura gli incentivi alle assunzioni sono arrivati anche prima della legge di stabilità, con il decreto della scorsa estate chiamato “campolibero”, che ha legato gli sgravi anche ai contratti a tempo determinato (purché di durata minima di tre anni). Ma, secondo gli esperti della Coldiretti, è ancora presto per vedere gli effetti di queste novità, così come quelli degli incentivi del Jobs act.
Più evidente, per ora, pare il mix di due ingredienti: l’export che tira, da una parte, trascinando con sé un settore ad alta intensità di lavoro, soprattutto immigrato; e una nuova attrazione per il lavoro agricolo dall’altra. Il ritorno dei giovani nel settore non è più una novità: ma la ripresa potrebbe favorire una maggiore stabilità delle loro avventure. Mentre rimane, come sempre, la scelta di settore-rifugio, per chi ha perso il lavoro, o è in cassa integrazione o deve arrotondare le entrate di un insufficiente lavoro part time.


Da “Internazionale”, 10 luglio 2015

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