3.9.17

Platonov comunista e visionario (Alfredo Giuliani)

È uscita l'anno scorso per Einaudi una nuova edizione e traduzione di Cevengur. Secondo me è un libro da leggere e per un centenario dell'Ottobre senza ortodossie ottimamente si presta. Posto qui una vecchia recensione di Giuliani, che coglie – secondo me – alcuni aspetti caratterizzanti del singolare romanzo. (S.L.L.)
Andrej Platonov nel 1922
Andrej Platonov non è soltanto uno scrittore russo. È in modo stupefacente uno scrittore sovietico, forse l'unico grande prosatore sovietico che illumina, si fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato. Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione.
Di estrazione operaia (chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò nell'Armata Rossa tra il ' 19 e il ' 21 (era nato a Voronez nel 1899) e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e decise di dedicarsi interamente alla letteratura.
E qui cominciarono i suoi guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929, pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e veridico sul comunismo della vita.
La devastante fiducia degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni dei Demoni e dell'Idiota di Dostoevskij. Si comprende come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a Platonov: “Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per Gor'kij che l'opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante Gor'kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali possiamo avere una percezione ridotta. “Non è colpa dei traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo stilistico dell'autore”. Sulla questione, per quanto posso azzardarmi, tornerò un poco più avanti.
na cosa buffa, e forse non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse grande attenzione. Sia prima, sia dopo il ' 72 erano usciti in Italia altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti, Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg. 382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato. In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà, forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170, da una gustosa conversazione che si svolge in città all' uscita da una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner; quest'ultimo gli domanda: “Tu da dove salti fuori?” “Dal comunismo. Nei hai sentito parlare?” “Hanno chiamato così qualche villaggio in memoria del futuro?” “Macché villaggio. È capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale”. “A che serve?”
A Cevengur o Ciociarnazzo sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini. Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il dolore dell'esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell'urgenza utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo stesso della sensibilità millenaristica presente nella società russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita, l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo ascoltarlo quando dice che l'autore di Cevengur, più che alla tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni puramente fonetiche l'affiorare di concetti totalmente privi di qualsiasi contenuto reale.
Ma non so quanto sia pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente surrealista. È strano che Brodskij taccia della vena futurista che a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall'altro il fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che più conta per il futurista russo è ritrovare nell'avvenire l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l'amore per le macchine si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell'incolumità. Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la verità dell'esistenza.
Le frasi di Platonov cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può suscitare ilarità o sgomento. È più o meno ciò che notano i critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo inferno si identifica con l' apparizione del paradiso. E Stepan Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in noi.
Quando scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio adottivo Sasa: “Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse la volta che diventerà più intelligente la vita”.
Prochor Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli, non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a tutti un brav'uomo.
Kopenkin è perplesso di non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la situazione: “La professione essenziale è l'anima dell'uomo. Il suo prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un' occupazione, secondo te?”. “Kopenkin rifletté un poco sulla vita oppressa d'una volta. 'È proprio bello da te a Cevengur, disse malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al sapore'. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito. Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai. Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?”.
A dire il vero, lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur: si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. È un lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l'eredità piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade, spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva. La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici, ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d'ordine e dalle formule della rivoluzione.
Ho detto in principio, un po' per burla, che Platonov illumina l'epoca in cui concepì e scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie bianche). Un'immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel lago per vedere com'è la morte; poteva essere un' altra provincia situata sotto il cielo come sul fondo d'una fresca acqua. Dopo tante peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva organizzare la vita.

“la Repubblica”, 25 febbraio 1990

1 commento:

Anonimo ha detto...

Non è facile trovare analisi o descrizioni di Cevengur, forse perché è un romanzo talmente lontano da noi che è estremamente difficile leggerlo... questa descrizione è davvero interessante e offre una chiave di lettura, pur non sciupando niente nella lettura del romanzo, che permette di essere compreso e apprezzato.

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