1.9.17

Settecento napoletano. Il secolo teatrale finisce con le forche (Franco Carmelo Greco)

Il secolo s’era teatralmente aperto nel 1701, allorché Saverio Pansuti (autore dell’Orazia, del Seiano e ancora di Sofonisba, Virginia e Bruto, tragedie che per struttura classicheggiante. impianto e negazione della scena s’affiancavano a quelle del Gravina e del. Marchese o a quelle peggiori e più tarde del Sarcone) era salito su una botte ad arringare il popolo in piazza Mercato, palcoscenico sopraelevato come quei banchi di pescivendoli, nella stessa piazza, sui quali l’immaginazione di Nicola Corvo, commediografo e librettista, a metà del Settecento, volle far montare il capopopolo Masaniello, in una ricostruzione poetica tuttora rimasta inedita della secentesca rivoluzione. La scena, così, in senso proprio o metaforico, diveniva termine medio fra le realtà, fra gli avvenimenti, fra le classi cittadine, e tutto si trasformava in essa, persino le panche di fortuna all’aperto, in strada, sulle quali riposavano centinaia di poveri disgraziati, senza alloggio, detti «banchieri», amaro e stabile palcoscenico della più squallida miseria e degradazione. E se il termine «banchieri» col quale si designavano i senzatetto non consentisse un immediato rinvio al teatro, è necessario ricordare che con lo stesso termine, in una sede eminentemente spettacolare, venivano indicati i cantastorie che, per lo più sul Molo, allineavano le panche in attesa degli ascoltatori cui raccontare le gesta di Orlando, Rinaldo, Buovo e Palmerindo.
Ed è emblematico che proprio nello specifico teatrale il secolo si aprisse sotto il segno dell’attesa, della pratica sociale del teatro come esigenza indifferibile di mediazione appunto: per la morte di Carlo II di Spagna ed il precipitare degli avvenimenti internazionali, i teatri cittadini erano stati chiusi senza scoraggiare o dissuadere nessuno dall’inventarsi l’alternativa: nel Largo del Castello teatrini dei pupi mettevano in scena spettacoli melodrammatici appositamente scritti (La donna sempre s’appiglia al peggio, di Carlo De Petris, su musiche di Tommaso de Mauro) e mentre dietro il «casotto» virtuosi ed orchestrali eseguivano arie e recitativi e i pupanti manovravano nascosti, davanti al boccascena s’accalcava gran concorso di spettatori nobili e meno nobili, borghesi e popolani. Con significativo cambiamento di logica, a chiusura dello stesso secolo, nel 1799, durante i moti napoletani, i teatri rimasero aperti, programmando spettacoli che confusamente tentavano di adeguarsi allo spirito rivoluzionario attraverso il capovolgimento dei contenuti celebrativi (il Nica-boro in Yucatán, che si dava già al San Carlo a celebrazione di Ferdinando IV, si continuò a dare per solennizzarne la fuga) o l’esaltazione di figure protagonistiche o eroicamente esemplari (furono dati l'Aristodemo del Monti, e Catone in Utica e Virginia e il Timoleone): era questo, forse, il livello, l’unico possibile, degli intendimenti pedagogici nuovi, strettamente legati com’erano ad una dimensione e concezione plutarchea della vita, tipica già d’un Filangieri e dei fratelli Francescantonio e Domenico Grimaldi. A copertura della nuova realtà s’innalzarono sul fronte del San Carlo e del Fondo, cioè dei Reali Teatri, le nuove più adeguate denominazioni: Teatro Nazionale per il primo, per il secondo Teatro Patriottico. Il segnalato cambiamento di nome dei Reali Teatri s’inseriva in una rivisitata toponomastica cittadina, a trasformazione della scena urbana in scena rivoluzionaria: Cantone di Sannazaro (già Chiaia), Cantone del Monte Libero (già Antignano), Cantone di Colle Giannone (già Due Porte), Cantone dell’Umanità (già Serraglio, con asilo del poveri), Cantone del Sebeto (già Palude), Cantone di Masaniello (già Mercato). E tuttavia si trattava di una conquista per il teatro che, nuovo depositario di una funzione pedagogica, si scopriva oggetto d’una attenzione politica e d’una analisi inedite. Il Conforti, nel “Monitore napoletano” n. 12, del 22 ventoso, corrispondente al 12 marzo di quell’anno, vede nella istituzione teatrale lo strumento più idoneo, per le sue stesse caratteristiche, ad una elevazione culturale, morale e civile della società, strumento di formazione «che si presenta al cittadino sotto il velo del piacere. Il Teatro, onde si propaga egualmente il vizio che la virtù a misura della direzione che gli si dà, deve formare uno degli oggetti più gelosi della cura e vigilanza delle amministrazioni, per non soffrire che il popolo venga da altri sentimenti animato che da quelli del patriottismo, della virtù e della sana morale».
La dimensione teatrale della civiltà settecentesca napoletana si rivelava conclusa da questo tipo di protagonismo civile ed etico che trovava una conferma nella riflessione del Cuoco e che operava nel teatro un salto di qualità rispetto ad altri protagonismi urbani, cui era stato invece affidato un destino di immobilismo o, anche, cortigianesco: si pensi a quel protagonismo esistente nella stessa immagine della città, anch’esso teatrale, la cui eredità era passata dai secoli precedenti al Settecento, costituito dalle «Isole», complessi aggreganti di edifici intorno a monasteri, conventi, chiese, ed affollanti il perimetro urbano, discriminante ed ostacolo alla sua crescita razionale; oppure all’analogo obiettivo di costruzione protagonistica, con in più la connotazione del fastoso, perseguito dall’amministrazione borbonica nel tentativo di ristrutturare la capitale. A ciò si aggiunga la concezione ludica dei «siti reali» (a Procida, Cardito, Carditello, Agnano, Astroni, Fusaro, Torre Guevara, Persano, Caserta, Caiazzo, Calvi, Capriati, Venafro, Maddaloni, Capodimonte) rispondente sempre ad una ipotesi scenograficamente oltre che socialmente elitaria.
Dietro tutto ciò, se di metafora del teatro si può parlare, si stagliano le forche del ’99, tragico suggello d’una pur luminosa avventura durata un secolo. Al «poeta della botte» del 1701, grottesca canzonatura d’un intellettuale che voleva farsi capopopolo, fanno da contraltare nella stessa piazza Mercato, da secoli ormai privilegiato scenario di eventi storici, le sagome penzolanti dei rivoluzionari e patrioti napoletani del 1799, divenuti cadaveri d’un definitivo fallimento, in una nuova, stavolta drammatica e crudele, metafora teatrale: «A signora donna Lionora / che cantava ’ncopp’o triato / mo abballa ’mmiezo o Mercato».


da La metafora del teatro, in Teatro napoletano del ’700, Tullio Pironti editore, 1981

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