8.11.09

Baffino. Caldarola su "Il Riformista" e Spinelli su "La Stampa"

I due "pezzi" qui postati, entrambi pubblicati oggi sono molto diversi.

Il primo è di Peppino Calderola, un tempo direttore de "l'Unità", poi deputato diessino "più dalemiano di D'Alema", poi innamorato del Pd e di Veltroni, approdato, dopo tante altre convulsioni, a una sorta di giornalismo "bipartisan", che lo porta a collaborare alternativamente con entrambi i quotidiani degli Angelucci ( "Libero" e "Il Riformista"). Si tratta di un corsivo per la rubrica "Mambo", per il secondo dei quotidiani citati, polemico contro chi polemizza contro D'Alema, ritenuto dopo tante critiche più che degno di ricoprire l'incarico di "ministro degli esteri" nella Commissione della Ue, soprattutto per il "metodo" che ha permesso l'appoggio esplicito di Berlusconi, sollecitato anche da Casini. Un sostegno "alla luce del sole", tutto il contrario degli inciuci che però lascia sperare in un "dialogo" tra destra e centrosinistra da realizzare con lo stesso metodo. Un passaggio breve ma interessante è dedicato allo scioglimento del Pci e al ruolo giocato in quel contesto da D'Alema.

E' il tema dell'articolo di Barbara Spinelli, giornalista senza bandiere politiche, ma di orientamento democratico, nutrito di valori di "sinistra". Il suo è un ampio editoriale che prende in esame le ripercussioni sulla sinistra italiana della "caduta del muro" di Berlino. D'Alema è anche per lei, , così come per Caldarola, un protagonista non solo dello scioglimento del Pci, ma anche del dopo, la "persona-chiave" del ventennio. Confrontare le due letture può aiutare a capire dome siamo arrivati e dove andiamo.

Mr Pesc e il metodo D’Alema

Peppino Caldarola

Il governo polacco ha fatto marcia indietro sul veto contro D’Alema. L’ex premier italiano adesso viene considerato in grado di diventare ministro degli Esteri della Ue. E’ stata una tempesta in un bicchier d’acqua frutto probabilmente di una cattiva conoscenza della situazione italiana e di pregiudizi duri a morire. L’idea che D’Alema fosse impedito a diventare mister Pecs per la sua antica militanza nel Pci era abbastanza stravagante. Trascurava tra l’altro che D’Alema è stato uno dei protagonisti dello scioglimento del Pci, la più grande forma di autocritica di massa di una comunità politica che ha rimesso in discussione l’intero suo passato. La vicenda che D’Alema sta segnalando alcune novità politiche che forse dispiaceranno solo ai cultori dello scontro frontale: Berlusconi appare impegnato in prima persona a sollecitare la nomina dell’uomo politico avversario e persino Casini ha messo al centro del suo colloquio con il premier la richiesta di un sostegno aperto alla candidatura italiana. Assai significativa è stata anche la posizione della Comunità ebraica romana, spesso polemica con l’ex premier, che ha ritenuto, per bocca del suo portavoce Riccardo Pacifici, di doversi spendere a favore di D’Alema: come si vede nessun “inciucio”, ma una vicenda che si sta svolgendo alla luce del sole. Se anche in altri campi maggioranza e opposizione dialogassero così responsabilmente si uscirebbe da un clima di rissa permanente che ha già fatto tanti danni.



Quel muro che cadde sulla sinistra

Barbara Spinelli

Il muro di Berlino cadde sulla testa della sinistra italiana come il giorno del Signore nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: “Voi sapete bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro, di notte. Proprio quando la gente dirà ‘Pace e sicurezza’, improvvisa piomberà su di essi la rovina, allo stesso modo che arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non scamperanno”. Per alcuni nel partito comunista italiano fu proprio così: Alessandro Natta, che fino all’88 aveva guidato il Pci, confidò a Claudio Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte fatale) che “Hitler aveva vinto”.
Fu in quei giorni che il suo successore, Achille Occhetto, cominciò a parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì ancora a darle un nome, ma sentì che per scampare bisognava subito inventarsi un partito nuovo e soprattutto un nome che facesse dimenticare il passato con i suoi tanti pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue volontarie impotenze. Per molti militanti fu una scossa, perché il passato non lo dismetti in una notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e compagni, cancellandone le tracce.
Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura di usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta. Non solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che per decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato prima, non avrebbero permesso che l’Italia restasse senza alternanza per quasi mezzo secolo.
Da allora sono passati vent’anni, e gli eredi del Pci ancora soffrono quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d’un colpo si svuota. Ci sono parole che lasciano l’impronta anche se son nebbia, e un destino simile toccò alla Cosa. Al posto dell’idea del mondo, comparve questo sostantivo che è un annuncio, un guscio che si promette di riempire: “un nome generico - scrive il Devoto - che riceve determinazione solo dal contesto del discorso”. Tutto da allora è stato futuro appeso a un contesto indeterminato: anche le primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper bene a cosa si aderisse. Anche la speranza di coniugare le due forze fondatrici della repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando (lo storico Giuseppe Galasso l’ha ricordato il 30 agosto sul “Corriere della Sera”) il terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale. Riesaminando l’ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che le nomenclature dell’ex Pci hanno finito con l’acquisire sull’Ulivo, e del patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime primarie il 75 per cento del totale, facendo “coincidere la geografia elettorale del Pd con i confini del voto comunista” e sconfiggendo l’Ulivo (intervista a Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).
Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l’ex Pci l’ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono anni che espia, fino all’eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol parlare. Il centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la politica senza contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale partito di sinistra, vergognandosi del passato, non fa vera opposizione per tema di somigliare a quel che era. Dallo spirito dell’89 ha appreso poco. Lo stato di diritto, l’onestà delle élite, la scoperta del conflitto sale della democrazia: la liberazione dell’89 ha preso da noi la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica. Inutile prendersela con i magistrati, se l’ansia di rigenerazione hanno finito con l’esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo è ormai una “parola malata e ambigua”.
L’espugnazione dell’Ulivo e del Pd non crea identità. Anche il socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non integrandolo e cercando di capire l’altrui tracollo oltre che il proprio. Anche per il socialismo italiano la caduta del Muro spuntò infatti come un ladro notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia di crudele appropriazione, ma il socialismo è non meno colpevole di questo furto di vocaboli e identità. Non è mai riuscito a divenire dominante, come nel resto d’Europa. E quando con Craxi volle disputare la rappresentanza della sinistra al Pci non seppe trarne le conseguenze: continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l’unità delle sinistre senza rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente, ma degradò sino a divenire il simbolo della corruttela italiana.
In un lucido saggio sull’Italia, lo storico Perry Anderson descrive un partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi sia erede dell’ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books, 21-3-02). La spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e irripetibile della nostra cultura. Altrove lo spregiudicato è figura settecentesca che combatte pregiudizi, dogmi: non coincide con l’uomo senza scrupoli. Da noi i due tratti si confondono, e spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza le regole, la legge, l’etica, nella certezza che il potere renda tutto lecito se non legale. L’intera classe dirigente ne è responsabile, e non stupisce che da decenni l’agenda della politica sia dettata da
Berlusconi.
Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una carovana che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma anelata da Massimo D’Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non vede il solo D’Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro: l’Ulivo non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori, che promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni, a distruggere l’ultimo governo
Prodi. Ciononostante è D’Alema la persona chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era, senza più dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei comunisti ha la stessa insofferenza verso il dissenso, lo stesso fastidio freddo verso la stampa indipendente. Sono sue e non di Berlusconi frasi come: “I giornali? È un segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola”. La morte temporanea de “l’Unità”, nel 2000, lo testimonia. Michele Serra parlò di delitto perfetto su “la Repubblica”: “La fine dell’Unità, forse più ancora della Bolognina, illumina lo sconquasso identitario della sinistra italiana. Ne racconta le insicurezze, i complessi di inferiorità, l’incerto e poco lineare incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni”.
Vivere la modernità da praticoni è l’abbandono dell’ideologia, in nome dell’antidogmatismo. Il fatto che le ideologie totalitarie siano perite, non significa che un partito possa solo vivere di volontà di potenza, e su essa fabbricare inciuci. Che possa continuare a ricevere il colore da discorsi effimeri. Dotarsi di un’ideologia vuol dire avere un sistema coerente di immagini, metafore, princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto con gli stranieri, la natura, il lavoro che muta, l’immaginario. A differenza della politica quotidiana, l’ideologia ha una durata non breve ma media, e la durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull’informazione di massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto d’interesse. Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.
Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata. Una Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film di Carpenter. Il suo sogno ricorrente è quello d’un paese normale: un’altra Cosa - imprecisa, mimetica - che dall’89 cattura gli spiriti. La sinistra invertebrata ha corteggiato Clinton, Blair, Schröder, tessendo elogi del moderatismo, del centrismo. Vita normale, per la sinistra, ha significato sin qui smobilitazione ideologica, conformismo: il nuovo ancora lo si aspetta.

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