4.11.09

Pinocchio, San Francesco ed altri saggi (inedito)


Il gioco dei centenari
Il testo, dedicato ai centenari del 1982, è stato scritto in quell’anno per "il manifesto". Severino Cesari, che coordinava le pagine culturali, pose come condizione per la pubblicazione la stesura di un pezzo sulle mostre francescane in Assisi da collocare nella stessa pagina, al fine di ricollegare il saggio all’attualità quotidiana. Non ne feci nulla e perciò il testo, nella sua forma integrale, è rimasto  inedito. Ne è stato tuttavia pubblicato un ampio stralcio nel 2002 su "micropolis". (S.L.L.)

Questi fantasmi
“Si scopron le tombe, si levano i morti”.
Scomparso dall’Europa il fantasma che da un secolo e mezzo vi si aggirava, suscitando una caccia spietata, altri se ne evocano e si mettono in circolazione con la scusa dei centenari, tanti. L’Ottantadue è un’annata eccezionale: dentro ci sono Darwin e san Francesco, Joyce e Paganini, Roosevelt e Garibaldi. A Pinocchio è capitata una strana ventura: nato a puntate nel giro di due anni, il centenario se l’è fatto doppio.
C’è in tutto questo un segno dei tempi: le rievocazioni centenarie contrappuntano l’agonia inesorabile delle utopie millenaristiche, non solo di quelle arcaiche e mitologiche, ma anche di quelle più moderne e “scientifiche”: il sole dell’avvenire è davvero alle nostre spalle. Né tramonta soltanto quella specie di futuro che ingenuamente chiamavamo comunismo, è il futuro come unità che si squarcia e dilegua; non ne intravediamo più l’immagine, non ne concepiamo più la speranza. In forma di presentimenti, di premonizioni, di presagi, per lo più striscianti, ne afferriamo sì e no qualche brandello, ne percepiamo sì e no un barlume.
Di necessità la frantumazione e la dissoluzione del futuro dissolvono anche il passato: passato e avvenire viaggiano in coppia nell’immaginario collettivo. Ho sottomano Il mondo alla rovescia, un classico di Giuseppe Cocchiara:
Nelle civiltà primitive tempo originario e tempo della fine procedono insieme. L’età dell’oro sta dietro di noi; un eterno segno di salvazione si annuncia sotto i nostri occhi.
Nel mondo moderno il nesso si complica, non più soltanto “l’estremo ieri e l’ultimo domani” idealmente uniti in un circolo, ma una grande varietà di tracciati, linee rette, spezzate, spirali. Ancora nel ’76 il romanzo di Consolo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, raccomandava la lettura delle spirali: “Conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene, immaginare anche quella che si farà nel futuro”; Mao stava ancora lì a garantire che se “il cammino è tortuoso, la meta è luminosa”. Oggidì nessuna meta prossima o remota è in grado di dare un senso, una direzione alla tortuosità del cammino; spezzato il filo che legava uomini ed eventi, la memoria storica si sbrindella ed anche il passato perde la sua compattezza, si fa – come dire? – precario.
Poco male: spesso l’omeopatia funziona; chissà che la precarietà dei passati non rimedi al nostro precariato individuale e collettivo! Non ci hanno forse spiegato che nel postmoderno compito della teoria (ma anche dell’archeologia, della geografia e della storia) è di spiazzare la gente? Che il resto è nostalgia di una totalità perduta ed oltretutto improbabile? Vivano allora i centenari, che sono tanti ed effimeri (durano al massimo un anno o due), che ci mettono in continuo movimento, dalle Galapagos all’Uruguay, da Quarto al Volturno, dagli Appennini alle Ande, dalla Mecca a Londra: “Il movimento è tutto, il fine è nulla” (che profeta Bernstein!).
I centenari sono autenticamente pluralisti. Ognuno può scegliersi il suo, come al supermercato, oppure farselo da sé: basta sfogliare un atlante storico o un dizionario enciclopedico, se non si possiede l’apposito manuale preparato dalla RAI.
I centenari sono disponibili: per un anno intero puoi prenderli, lasciarli, riprenderli, consumarne orgiasticamente quattro o cinque insieme, ad libitum, e, a differenza delle donne (dei gioielli, dei motori, delle lacrime) non costano nulla.

Il primato degli Italiani
In Italia il successo dei centenari ha una ragione di più. Il popolo d’eroi, di poeti, di santi, di navigatori si trova a commemorare nello stesso anno “l’Eroe dei Due Mondi”, “il più Italiano dei Santi” e l’errabondo Pinocchio, creatura eminentemente acquatica. Quanto a poesia nessuno dei tre ne patisce carenza.
Anche la politica ha subodorato che l’affare è grosso e, manco a dirlo, ciascuno ha preteso la sua parte. La DC s’è accaparrata san Francesco; quel prepotente di Craxi non s’è contentato di spartirsi con Spadolini le spoglie di Garibaldi, ha voluto tutto per sé il mezzo centenario di Turati, suscitando le gelosie di Napolitano.
Come che sia, personaggi del calibro di San Francesco, Pinocchio, Garibaldi possono davvero rendersi utili, per esempio a misurare la nozione d’italianità (chi è l’italiano, com’è fatto, che cosa si vuole da lui), purché si vada dietro non alla verità effettuale della cosa, quanto all’immaginazione di essa e dei nostri campioni si cerchi non tanto il “che cosa ha veramente detto (o fatto)”, ma piuttosto il “come funziona” e il “che cosa può voler dire oggi”.
Fra i tre, intanto, c’è un fondo comune (solidarietà? complicità?) che non si lascia ridurre ad italici “genio e sregolatezza”, ad una sorta di mediterranea esuberanza, benché latitudine e salsedine un po’ influiscano. Gli è che Pinocchio, Francesco, Garibaldi sono epifanie del Carnevale assai più di Bertoldo, il quale, nonostante la sua arguzia, è troppo savio e conservatore. C’è in tutti e tre il senso potente della teatralità carnevalesca, quella che infrange lo spazio scenico in cui la si vorrebbe confinare, che irrompe nella vita e la riempie di sé, facendo saltare la divisione in esecutori e spettatori. C’è in tutti e tre la tensione verso il rovesciamento dell’ordine gerarchico e di tutte le forme collegate di terrore, di devozione, d’etichetta; l’eccentricità dell’abito, del gesto, dell’immagine, che si oppone alle convenzioni, agli equilibri dati. C’è in tutti e tre la follia del Carnevale.
Questi tratti s’articolano, com’è ovvio, diversamente in ciascuno dei nostri eroi. Del Carnevale in san Francesco ha già scritto, sulla scia di Bachtin, Carlo Ginzburg, ma degli utilissimi riscontri si trovano in un saggio di Eric Auerbach del 1927 sul fattore personale nell’ascendente del santo di Assisi. Carnevalesco appare, primariamente, il suo consapevole senso spettacolare (voleva che i frati si facessero giullari di Dio, ioculatores Domini), che ad ogni occasione travalica i limiti imposti dalla convenienza. Già famoso come santo e gravemente malato, Franceso è spinto dal medico a consumare del pollo; appena guarito si fa trascinare in giro con una corda al collo e per le strade va gridando: “Ecco il ghiottone! Alla chetichella s’è rimpinzato di pollo arrostito”. La prima volta che va da papa Innocenzo “non trattenendosi dalla gioia, muove i piedi come danzando”. Quando il Papa gli rimprovera la somiglianza con i maiali, egli corre a rotolarsi in un porcile, donde tutto lercio torna dicendo: “Ora però ascoltami”.
De toto corpore fecit linguam” scrive di lui Tommaso da Celano, l’autore della prima biografia ufficiale. E, in effetti, la sua comunicativa non si fonda esclusivamente sulla parola, ma sulla tensione di tutto il corpo, su una gestualità, su una mimica che lo fa parlare con gli animali ripetendone versi e atti, che lo spinge ad imitare, in estasi, con un pezzo di legno, i movimenti di chi suona il violino, a gettarsi nudo sulla neve, a chiamare Gesù l’agnello di Betlemme, pronunciando questa parola come fosse un belato. E’ per questo che ogni sua predica appare una performance unica e che appare difficile perfino riferirne. Così testimonia un medico bolognese che l’ha udito parlare:

Mentre sono capace di ricordare parola per parola le prediche degli altri, solo quando parla san Francesco, non riesco a ripeterne una sillaba. E se qualcosa mi rimane in mente, mi pare del tutto diversa da come era uscita dalle sue labbra.
Si capisce allora come la gente non si limiti ad ascoltarlo, ma partecipi durante le sue prediche ad un’esperienza che trascina e che trasforma:
Il suo abito era sordido, l'aspetto spregevole, la faccia brutta; ma Dio diede alle sue parole tanta efficacia che molte consorterie di nobili, tra le quali un barbaro furore, causato da antiche inimicizie, aveva infuriato versando molto sangue, furono indotte a far pace… Uomini e donne in massa gli si gettavano addosso, contenti di riuscire a toccare il lembo del suo saio o di strappare un pezzetto dei suoi miserabili panni.
Non si tratta esclusivamente di un fenomeno divistico: il carisma di Francesco non si fonda su valori comunemente accettati, su opinioni consolidate, non mobilita e fanatizza pregiudizi correnti; resuscita invece quell'altra vita del popolo in cui l'esistente si rovescia nel suo contrario, in cui si ribaltano le gerarchie e gli ultimi diventano i primi, i piccoli si fanno grandi, in cui restare nudi al freddo, camminare scalzi sull'ispida roccia, sentire freddo e fame e non trovare riparo, baciare i lebbrosi può essere perfetta letizia.


Contro il culto del libro
Le avventure di Pinocchio sono una vera e propria centona dell’immaginazione carnevalesca. Gli animali parlanti, le trasformazioni, il mondo alla rovescia coi ladri sugli scudi e i derubati in prigione, il paese di Cuccagna, l’happening teatrale nel baraccone di Mangiafuoco, il ridicolo che copre giudici, gendarmi, medici, tutto concorre a creare un mondo di scatenata libertà, d’avventurosa follia, al di fuori degli schemi asfissianti del quotidiano.
Garibaldi aveva un handicap, non poteva vantare alcuna professionalità scenica; ma, benché non fosse burattino né si proclamasse giullare, i benpensanti nondimeno lo bollavano come “buffone” e giudicavano la sua epopea una “carnevalata”. Lo volesse o no, era anche lui un teatrante, sia pure di una teatralità meno estrosa ed imprevedibile di quella di Pinocchio o di Francesco. Ognuno, del resto, spende quel che ha e l’unico modello che i tempi offrivano al buon Peppino era il melodramma, con le pose statuarie, le enfasi passionali, gli eroi titanici e solitari presi a prestito dalla narrativa nera e appendicista. Così Garibaldi si fece corsaro, masnadiero, vendicatore, bello, tenebroso e puro. Ma l’abito gli stava stretto e perciò ricorreva al pastiche, alla sana e carnevalesca commistione dei generi letterari: alla tragica e sublime follia dell’eslege aggiungeva l’umile (o il comico) del borghesuccio che si nobilita impalmando una contessina o che tenta di arricchirsi mettendosi in affari. La sua figura ne esce più paradossale e scandalosa: è molto più trasgressivo un eroe che giochi in borsa di un borghese che giochi a far l’eroe.
Un altro elemento accomuna i nostri personaggi, la diffidenza (se non la ripugnanza) per la cultura dei libri, proprio quella che il Carnevale aveva parodiato, storpiato, sbeffeggiato, rivelandone la tronfia inconsistenza. Garibaldi scrive: “I peggiori nemici della libertà dei popoli sono i dottrinari democratici o repubblicani”. Dei teologi san Francesco arriva a dire: “Dall’approfondimento delle scritture si troveranno come raggelati dentro, come vuoti”. La sua regola arriva a proibire il possesso di libri (anche se il divieto sarà presto cancellato) e in tanti fioretti, in tante leggende, lo si ritrova ad ammonire, ad irridere, a confondere uomini di scienza o frati smaniosi di scienza.
S’è tante volte ipotizzato che la debolezza di Garibaldi e Francesco sia soprattutto teorica, che sia cioè mancanza di dottrina e di coerenza programmatica, ma la diffidenza per il libro e il rifiuto della mentalità libresca sono anche la loro forza, in ogni caso la base della loro “popolarità”.
Più complicato è il rapporto di Pinocchio con i libri. Da essi si attende la ricchezza ( “Voglio imparare subito a leggere; domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro a fare i numeri. Poi, con la mia abilità, guadagnerò tanti quattrini”); ma subito dopo non esita a svendere l’abbecedario, pur di godersi lo spettacolo delle marionette. Nel corso delle sue peripezie imparerà che i libri sono indigesti al punto di essere rifiutati persino dai pesci (“Non è roba per noi, noi siamo avvezzi a cibarci di molto meglio”); imparerà che i libri sono pesanti (“Era un Trattato d’Aritmetica! vi lascio immaginare se non era peso dimolto!”). E’ logico che, quando Lucignolo gli vanta il Paese dei Balocchi (“Lì non ci sono libri. Lì non si studia mai”), egli pensi: “E’ una vita che farei volentieri anch’io”.


De imitatione Christi
La simmetria tra paradosso carnevalesco e paradosso cristiano è evidente. Quale rovesciamento più radicale dell’ordine e della gerarchia, quale mescolanza più scandalosa d’un Dio che si fa ammazzare in croce come un ladrone? D’istinto i nostri eroi, per eccellenza carnevaleschi, sentono l’affinità e ricalcano in molti tratti la figura di Cristo: Francesco programmaticamente, Pinocchio in modo più spontaneo, ma non meno significativo.
Circolò anni fa una storiella. Gesù, ispezionando il Paradiso, trova un vecchietto curvo e canuto: “Ero falegname ed ebbi un figlio che mi diede tanti pensieri. L’avevo perduto e dovetti cercarlo disperatamente. Ma dopo mi diede tante consolazioni”. Gesù gli butta le braccia al collo: “Papà!”; il vecchio risponde: “Pinocchio!”. Ma ad accomunare il Cristo e Pinocchio non è solo un vecchio padre putativo che si chiama Giuseppe (o, più affettuosamente, Geppetto): come san Francesco, Pinocchio riceve le stimmate, fin dal momento iniziale della sua storia, quando si brucia i piedi sulla stufa; come Gesù, ha una nascita miracolosa ed una mamma strana, che sospettiamo vergine. La sua impiccagione, anche nell’iconografia, rammenta la crocifissione e tutta la sua vicenda è un’alternanza di morti e resurrezioni: trasformato in asino rinasce nell’acqua rigeneratrice; come Giona, figura Christi, è inghiottito dal mostro marino e ne scampa; e così fino alla definitiva apoteosi, con relativa trasformazione, l’abbandono delle squallide spoglie di burattino e l’ascensione al cielo dell’umano.
Anche l’epopea garibaldina s’iscrive a buona ragione nell’imitazione di Cristo. Non a caso le sue parole-chiave sono “redenzione” e “resurrezione”. “Si scopron le tombe” canta l’inno famoso. “Le fosse si aprono” – fa eco Victor Hugo, salutando l’impresa dei Mille – “ci si chiama di tomba in tomba. Resuscitate! E’ più che la vita, è l’apoteosi”. Ma a presentare esplicitamente Garibaldi come Cristo ci pensano i suoi, dopo il ferimento d’Aspromonte che ha impreso anche su di lui le stimmate della crocifissione. Circolano strani catechismi incentrati sul culto della sua personalità, lo s’invoca “PADRE della nazione, FIGLIO del popolo, SPIRITO della libertà”, si afferma che “si fece uomo per salvare l’Italia”. Lui stesso, mentre combatte il fariseismo dei preti, “la trista genia che nel santo nome di Dio ruba la vita e la libertà al popolo”, va in giro a celebrare battesimi e matrimoni alla garibaldina ed al Congresso della Pace di Ginevra lascia tutti esterrefatti, indicando tra i compiti dell’Internazionale la propaganda della “religione di Dio”. Forse pensa davvero di proporsi come fondatore di una nuova religione d’ispirazione massonica.
Nel romanzo che scrive in quegli anni Sessanta, Clelia, si prova ad imitare lo stile icastico e paradossale dell’Evangelo. Ad un certo punto una folla infuriata assalta un palazzo principesco al grido “Morte ai preti!”; ma il Solitario, trasfigurazione letteraria dell’autore, replica con un “Morte a nessuno!” gridato alle moltitudini dall’alto di un balcone ”. Al Cristo oltre tutto somiglia, a quello dei quadri e dei santini: è facile rappresentare dei Garibaldi-Gesù, benedicenti o no, sotto i quali accendere i lumini. Del Cristo – spiegherà Carducci - egli possiede “l’umanità raggiante e sorridente come la dolcezza dello sguardo azzurro”, oltre ai lunghi capelli biondi.
(I capelli di Garibaldi meritano una breve parentesi, per la presenza di contenuti simbolici, neppure troppo oscuri. Lo dice perfino la canzoncina goliardica: “Io le toccai i capelli / lei mi disse non son quelli / va più giù che son più belli”. Ben lo sa la gelosissima Anita che, come Dalila a Sansone, recide nottetempo la chioma del suo eroe, il quale se la fa crescere per piacere alle donne. E’ invece Francesco a tagliare i capelli a Chiara, quasi a castrarla, a rimuovere la sua sessualità sconvolgente. Turchini sono infine i capelli della fata di Pinocchio. Alludono ad una sessualità diversa? Forse perversa? Si spiegherebbero certe sue crudeltà ed altre manifestazioni di sado-masochismo).

L’uomo, la bestia e la virtù
Vi ricordate Scrittori e popolo? Asor Rosa vi aveva posto, ad epigrafe, un brano d’Umberto Saba:
Perché l’Italia non ha avuta, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi-, una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gl’italiani non sono parricidi; sono fratricidi… Gl’italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che inizia una rivoluzione.
L’immagine è suggestiva, ma completamente falsa. Francesco, Pinocchio, Garibaldi compiutamente dimostrano che, quando ci si mettono, gli italiani sono buoni a liberarsi del loro padre, naturale, putativo o politico che sia. Della probabile ed imminente morte di “crepacuore” di Geppetto, per responsabilità dello scapestrato Pinocchio, si parla sovente nel libro di Collodi, finché il vecchio falegname non muore davvero, o almeno così si pensa, inghiottito dal pescecane, mentre cerca il figliolo. Lo spogliarello di Francesco nella piazza di Assisi e il ripudio di Pietro Bernardone altro non è che una simbolica uccisione. Quanto a Garibaldi, il padre che egli uccide è quello politico, è quel Mazzini, che s’era eletto a capo della sognata Repubblica italiana, a cui aveva chiesto lettere di corsa, quel Mazzini che l’aveva richiamato in Italia nel 1846 raccomandando ai giornali repubblicani di pomparne l’immagine. “San Giuseppe” Mazzini (così lo chiamavano nella loro corrispondenza Marx ed Engels) aveva costruito Garibaldi come una sua creatura, ma ben presto questi ne sente ingombrante la presenza, diviene insofferente alla sua autorità. Così nel 1871, l’anno in cui Carlo Cafiero definisce Mazzini “un povero vecchio che ha fatto il suo tempo”, Garibaldi rivendica il primato del parricidio:
Dimandate a Mazzini se l’origine delle nostre discordie non sia aver io osservato nel ’48 che faceva male a trattenere la gioventù a Milano… E Mazzini è uomo che non perdona a chi tocca l’infallibilità sua.
Così scrive l’eroe a Petroni, il 21 ottobre di quell’anno. Del resto, dal Quarantotto in poi, egli aveva impegnato gran parte del suo tempo a distruggere l’immagine di Mazzini nel cuore dei giovani.
Il parricidio, come dimostra la vicenda dei nostri eroi, è dunque un ingrediente importante della storia patria, ma c’è sempre un ma. Quando Francesco restituisce abiti e denari al padre così si esprime:
Fino ad ora ho chiamato mio padre Pietro di Bernardone; ma poiché ho fatto proposito di servire Dio, gli rendo pecunia, per la quale era turbato, e inoltre tutti li vestimenti che ebbi dal suo, volendo da qui innanzi dire Padre nostro che sei nei cieli, e non padre Pietro di Bernardone.
E’ un atteggiamento rivelatore. Gl’italiani sono anche capaci d’infrangere l’autorità costituita, di uccidere il padre, ma subito dopo ne sentono insopportabile l’assenza e cercano di risuscitarlo o se ne cercano un altro. Così Pinocchio tira fuori Geppetto dal ventre del pescecane e poi l’accudisce, lo cura, lo mantiene, lo guarisce; così Francesco che si sottomette non solo al Padre del cielo, ma anche al Bianco Padre che sta a Roma; così Garibaldi che consegna la mezza Italia liberata al Padre della Patria Vittorio Emanuele. C’è un meccanismo infernale che fa rientrare le ribellioni appena iniziate o le manda a monte dopo la loro riuscita, forse il radicato bisogno di un’autorità cui obbedire.
E’ infatti l’obbedienza (Pinocchio direbbe toscaneggiando “ubbidienza”) la virtù che i nostri eroi educano, più o meno faticosamente, nel loro cammino, la chiave di volta di tutto l’arco della loro esperienza, anche per Garibaldi che pure cerca di tornare sui suoi passi, ma che rimane segnato dal suo ormai irrevocabile “Obbedisco”. Ed è perciò proprio il richiamo all’obbedienza il messaggio, neanche troppo nascosto, delle celebrazioni di quest’anno, cui hanno dato avallo tutte le autorità del paese, Pertini, il Papa, Spadolini, Fanfani e perfino Craxi. Sembrano voler dire: “Ragazzi, la licenza è finita, si torna nei ranghi”; oppure, con le parole del Marziale di Ceronetti: “Dissi di dir di no, ma mica sempre”.

Le carezze di Tinchione
Lassù, dunque, qualcuno ci ama e ci addita con esempi illustri la via da seguire. Ma noi, ingrati, diffidiamo, e vogliamo sapere come andò a finire. Garibaldi, Francesco, Pinocchio, dopo la scelta dell’obbedienza, vissero davvero felici e contenti? Non risulta. I primi due, abbandonati dai loro stessi seguaci, si confinano nella solitudine a Caprera e alla Verna. L’unico lieto fine è quello di Pinocchio che diventa un ragazzino perbene, tanto perbene. Si può scommettere che s’annoiasse a morte. C’è un’incontenibile nostalgia nelle parole che rivolge al suo vecchio corpo di burattino: “Com’ero buffo!”. Perciò m’insospettiscono e preoccupano i richiami all’obbedienza, le dichiarazioni d’amore dei potenti.
Ho una storia della mia terra, ripresa da Pitrè, da offrire alla meditazione. Tinchione era uno sposato ed alla moglie voleva un bene da uscirne folle. Se stava a tavola a mangiare, dopo un po’ s’alzava e la baciava; se stava al suo banchetto di calzolaio, subito s’alzava e la baciava; per strada baci, a letto baci. Era il Signor Bacia-bacia. Una notte, come in delirio, abbracciò la moglie e lì stringi e bacia, bacia e stringi. La donna capiva ch’era la forza dell’amore e lo lasciava fare, ma furono tanti i baci, gli abbracci, le strette che le mancò l’aria e morì soffocata. Perciò si parla delle “carezze di Tinchione, che ammazzò la moglie con i baci”.
La favola si può leggere in tanti modi, ma io me ne ricordo tutte le volte che sento che lassù qualcuno mi ama.
E mi ricordo di un’altra storia siciliana, che fa parte del patrimonio folclorico della mia famiglia. Si dice che, quando i Francesi occuparono la Trinacria, s’alloggiarono nelle case dei palermitani, uno per casa, per controllarli e ridurre le spese: ne sbafavano le cibarie, ne tracannavano il vino, a volte ne godevano la moglie. Ancor oggi d’una presenza parassitaria (un figlio pigro, un cognato disoccupato e simili) si dice “avere il francese in casa”. Sono in massima parte indigeni quei “francesi” che noi italiani ospitiamo malvolentieri nella casa comune. In Sicilia si sa come andò a finire: col taglia-taglia del Vespro di cui, quest’anno, ricorre il settimo centenario. Quanto a noi, che dalla storia abbiamo appreso ogni possibile lezione, sappiamo che non è di certo la carneficina il mezzo davvero efficace per liberarsi delle presenze importune. Dovremo perciò continuare a sopportarle?
Un altro centenario si prepara per l’83, quello di Carlo Marx. Buono quello!

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Oggidì nessuna meta prossima o remota è in grado di dare un senso, una direzione alla tortuosità del cammino;"
ho trovato il tuo scritto straordinariamente e amaramente attuale. e ho scelto quella frase che mi pare che racchiuda il senso di disperazione della precarietà, però anche tutta la sfida che si racchiude in essa. Io, personalmente, un occhio ai centenari lo mantengo. al di là di questo, molto interessanti alcuni spunti che potrei pure utilizzare al lavoro...
monica

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