24.11.09

A Sud di Lampedusa. Elezioni farsa in Tunisia.



Lo scandaloso caso di Ben Alì


Il pressoché totale disinteresse che i media e i politici italiani hanno mostrato riguardo alla recente farsa elettorale in Tunisia non è casuale. Rieletto per la quinta volta consecutiva e in maniera plebiscitaria, il presidente Ben Alì, governa il paese con pugno di ferro, altrimenti detto, in maniera dittatoriale. Lo fa col pieno appoggio delle oligarchie europee, che ben si guardano, anche in questo caso, di chiedere il rispetto dei diritti umani, di denunciare i brogli elettorali, o di invocare l’esportazione della democrazia. Quelli che davanti a regimi ostili sono principi inviolabili, con i loro lacchè diventano bazzecole.

Tutto come previsto. Nessuna sorpresa. Le elezioni presidenziali svoltesi in Tunisia il 25 ottobre scorso, ovviamente truccate, hanno consegnato a Ben Alì una schiacciante vittoria: il 90% dei voti*. Un po’ meno delle tre precedenti elezioni, quando egli ottenne il 99%.

Stesso dicasi per le legislative, svoltesi in contemporanea: il Raggruppamento costituzionale democratico (Rcd), il partito del presidente (che annovera 2,7 milioni di iscritti), ha ottenuto 161 seggi, la maggioranza più che assoluta dei 214 deputati del parlamento tunisino.**

Gongolano la rapace borghesia tunisina e la sclerotizzata casta politica dominante, che vedono messa al riparo la stabilità politica e l’occhiuto e crudele stato di polizia che li protegge. Gode la nutrita comunità italiana che da tempo conduce lucrosi affari nel paese. Plaude non senza imbarazzo l’Unione Europea che considera Ben Alì un cane da guardia alle sue frontiere meridionali, un mastino per allontanare “la minaccia del salafismo e del fondamentalismo” (da molti anni la Tunisia presiede il Greater Middle East Partnership Iniziative, ovvero il comitato anti-terrorismo dei paesi arabi che assieme agli USA fan parte della crociata anti-jihadista), in verità deputato a contrastare qualsiasi processo di cambiamento in senso antimperialista.

Ma l’immobilismo politico e la stabilità del regime, non equivalgono automaticamente a solidità politica o stabilità sociale. Tre gli eventi politico-sociali, certo di diversa natura, che nell’ultimo periodo hanno scosso la società tunisina, squarciato la sua apparente pace sociale e che indicano cosa si muova sottotraccia.

Anzitutto la sommossa armata islamista scatenatasi il 23 dicembre 2006 e durata per più di una settimana, repressa nel sangue dalle forze di polizia. Il regime non solo fece immediatamente scendere una cortina di silenzio sugli avvenimenti (restarono segreti sia il numero dei morti e dei feriti, che quelli degli arresti), ma ne approfittò per stringere ancor più saldamente le catene dello stato di polizia e spazzar via i già flebili spazi democratici esistenti. La sinistra tunisina, così come i militanti per i diritti civili non poterono evitare di pagare salato il prezzo della repressione: giornali chiusi e siti oscurati, decine e decine i giornalisti, gli avvocati democratici e i militanti arrestati.

Il secondo evento è stata la rivolta popolare nel bacino minerario di Gafsa (vedi La dittatura a sud di Lampedusa), nel centro-sud del paese, scoppiata il 5 gennaio 2008. Accanto ai minatori si raccolse massicciamente tutta la popolazione locale, dando vita a moti di protesta che, pur a singhiozzo, sono durati per settimane. "Le Monde Diplomatique" del giugno 2008 sottolineava “la impressionante coesione popolare che le forze dell’ordine non riescono a spezzare”: si trattò in effetti della rivolta di massa più consistente dopo i noti “moti della fame” del 1984. Il regime, nel totale silenzio internazionale, reagì nella maniera più brutale. Dopo aver decretato lo Stato d’emergenza nella provincia di Redeyef, la polizia si scagliò contro i dimostranti, sparando a più riprese, uccidendone due e ferendone dozzine. Gli arrestati furono circa duecentocinquanta (molti dei quali ancora reclusi). Molti cittadini, giovani anzitutto, dovettero darsi alla macchia e sono tutt’ora ricercati.

Il terzo fenomeno consiste proprio nel movimento dei diritti civili, che vede mobilitati intellettuali, avvocati, giornalisti, sindacalisti e la minoritaria ma combattiva sinistra tunisina. Libertà di stampa, di parola, di organizzazione è quanto chiede l’avanguardia attiva del paese, non senza rivendicare la scarcerazione dei prigionieri politici, la denuncia delle disumane condizioni nelle carceri, dall’interno delle quali filtrano denunce di sevizie, torture, malnutrizione come gli illimitati periodi di isolamento a cui vengono sottoposti i detenuti politici. Per dare un esempio di cosa sia la “democrazia tunisina” vale la pena ricordare il caso esploso nell’aprile 2004, quando un insegnante e otto suoi studenti vennero condannati all’ergastolo per avere visitato siti internet proibiti.

Davanti a questo scandalo ci si aspetterebbe una “vibrata protesta” da parte della “democratica e liberale” Europa. Al contrario! Contro le proteste dei tunisini l’Unione Europea versò al governo un contributo di 2.15 milioni di euro “per il rilancio dell’editoria” nel paese, quattrini finiti nelle casse della stampa di regime. Non meglio agirono le Nazioni Unite che fecero svolgere proprio a Tunisi il vertice del WSIS, il summit dell’ONU per la libertà di stampa.

Accettando il perimetro e le regole del gioco fissate dal regime, prigioniera per di più dell’ideologia progressista e antislamista, la sinistra tunisina non pare poter uscire dal suo stato di minorità. In occasione delle recenti elezioni essa ha formato una coalizione unitaria, l’Iniziativa Nazionale per la Democrazia e il Progresso, coalizione che raggruppa il Movimento Ettajdid, il Partito Socialista di Sinistra, e l’ex maoista Partito del Lavoro Patriottico e Democratico. La coalizione alle presidenziali ha ottenuto 74.257 voti, un modesto 1,57%. Alle legislative ancor di meno. In realtà la coalizione avrebbe potuto ottenere almeno il doppio se il regime non ci avesse messo lo zampino, se cioè non avesse invalidato ben 13 delle 26 liste circoscrizionali, e se avesse consentito un regolare spoglio delle urne, rigidamente controllato dai suoi zelanti funzionari.

*Secondo i dati ufficiali forniti dal governo i suoi tre avversari alle presidenziali e che hanno ottenuto il restante 10,38% sono: Ahmed Inoubli dell'Unione democratica unionista (Udu) col 3,8%; Mohamed Bouchiha del Partito di Unità popolare (Pup) col 5,01% e Ahmed Brahim del partito Ettajdid, col 1,57% dei voti.


** I restanti 53 seggi, meno di un quarto del totale, vanno a sei partiti: Movimento dei democratici socialisti 16 seggi; Pup 12 seggi; Udu 9 seggi; Partito social-liberale 8 seggi; Partito dei verdi per il progresso 6 seggi; Ettajdid 2 seggi.



L'articolo è un redazionale dal sito del Campo Antimperialista.


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