23.9.11

Il Sessantotto sommerso e il giglio dell'amore ("micropolis" novembre 2008)

Recupero questo mio scritto d'occasione dalla rubrica "La battaglia delle idee" nel numero di "micropolis"del novembre 2008, ove apparve con un titolo diverso (L'anno più  lungo). (S.L.L.)

Organizzata dalla Cgil di Perugia si è svolta il 17 novembre una tavola rotonda sul tema 1968, l’anno più lungo del secolo breve. Coordinati da Fabio Mariottini, direttore di "micropolis", ne hanno ragionato il segretario della Camera del Lavoro provinciale Mario Bravi e gli storici Sandro Portelli e Renato Covino. Nel titolo la chiave del discorso a più voci: oggetto del dibattere non è l’“anno fatidico”, ma un arco di tempo più ampio, che si apre nei primi anni sessanta in America e si chiude intorno al ’78, dopo il delitto Moro.
L’impostazione evita la caduta nel “reducismo” che imperversa, di volta in volta epico, autoironico o melanconico. Diverte peraltro un siparietto. Da una parte Portelli: “Nel Sessantotto non c’ero, facevo il militare a Pozzuoli”; dall’altra Covino: “Io c’ero, ma per quelli che ci raccontavano di aver fatto la Resistenza usavamo slogan pesanti, che chiedevano conto del dopo”. Per tutti i relatori la spinta iniziale del 68 è la tensione antiautoritaria che percorre molti pezzi di società nell’Occidente capitalistico (dai neri d’America agli abitanti delle periferie parigine o romane, dagli operai di molti paesi alle donne di tante estrazioni e condizioni) e mette in discussione gerarchie consolidate. La rivolta, spesso latente e sempre frammentata, trova un catalizzatore nei moti studenteschi e un tema unificante nell’opposizione alla guerra nel Vietnam.
Portelli, narratore gioioso, rievoca, in particolare, la Convenzione del Partito democratico americano, con le automobili della polizia venuta ad arrestare i rivoltosi circondate per due giorni da un immenso sit-in. A uno a uno, tolte le scarpe, vi salivano su studenti e studentesse per “prendere la parola”. Ci sono venuti in mente I dieci giorni che cambiarono il mondo di John Reed: in diretta, anche la Rivoluzione russa appare una “presa della parola” più che una “presa del potere”. Portelli ricorda anche il successo dalla parola “contestazione”, che appunto significa una risposta (denuncia) apertis verbis alle ingiustizie, alle magagne, alle menzogne dei potenti.
La rappresentazione del carattere democratico del movimento, della sua capacità di scuotere ogni ambito della vita sociale percorre tutti gli interventi; sorprende semmai, in una iniziativa della Cgil, il poco spazio dedicato agli operai italiani, ai delegati di reparto, ai Consigli di fabbrica. Covino avvia la riflessione più difficile: come, quando e perché si chiude in Italia il “movimento” e quali effetti lascia, quantificando le vicende personali delle “avanguardie di massa”: qualche migliaio di giovani travolti dalle droghe; altrettanti risucchiati dal terrorismo; altri, cambiando anche radicalmente posizione, in carriera nell’imprenditoria, nelle professioni, nel giornalismo; più numerosi quelli che scelgono l’impegno nei partiti di sinistra o nel sindacato. Lascia filtrare anche una domanda sulla durata e l’intensità del movimento nel nostro paese. Non usa la categoria della “crisi di regime”, a lui e a noi cara, ma ne accenna i contorni.
Alla seconda parte del “68 lungo”, quella che si può considerare la sua parabola discendente e fare iniziare con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, ha dedicato Anni Settanta (Einaudi, 2007) Giovanni Moro, sociologo politico e figlio di Aldo, un denso libretto a nostro avviso sottovalutato perché impropriamente accostato ad altri libri di figli di vittime della violenza politica. In realtà il capitolo dedicato al “caso Moro”, influenzato dalla pietà filiale, è la parte più debole del saggio che del decennio trattato segna confini, indaga conflitti, disegna dinamiche e blocchi e contiene una definizione della crisi che a noi pare perfetta: “…era una specie d’inceppamento di tutti i meccanismi che fino a quel momento avevano garantito uno sviluppo forse caotico ma impetuoso e che, improvvisamente, non funzionavano più – penso anche per incapacità di fare fronte ai loro stessi successi”.
Tra i conflitti ne segnala specialmente uno, quello “di cittadinanza”, che riguarda la democrazia come fatto quotidiano e ha per oggetto la democratizzazione della vita quotidiana e dei rapporti sociali, cioè cose come il sistema del welfare (sanità, casa, scuola, trasporti, etc.), le relazioni tra Stato, corporazioni e cittadini, la famiglia e la condizione della donna, il territorio e l’ambiente, il mercato e il consumo. Ed è il “movimento”, più che il fragile riformismo dei partiti, a determinare la lista delle“riforme”, talora compromissorie e rabberciate, caratteristiche del “68 lungo”: sanità, psichiatria, aborto, consultori, equo canone, statuto dei lavoratori, gabbie salariali, 150 ore, etc.. Sul Sessantotto Moro avanza l’ipotesi di una divaricazione tra la “superficie”, quelle che abbiamo definito “avanguardie di massa”, e una parte sottostante, una sorta di fiume carsico che si inabissa per esprimersi poi nel movimento delle donne, nella partecipazione popolare nel territorio (i comitati di quartiere) o nella scuola, etc. E’ forse lo stesso tipo di Sessantotto di cui parla Portelli nell’incontro perugino, quando dà conto di una ricerca romana fatta tra quelli che stavano nelle ultime file delle assemblee e che parlavano poco anche prima che leaderismo e gruppismo togliessero (di nuovo) la parola ai più.
Si scopre che la maggior parte di loro lavora nel pubblico (medici, insegnanti, psicologi, assistenti sociali, tecnici dell’ambiente, etc.) e che difende con le unghia e coi denti quel tanto di socialità nel loro agire quotidiano che non è stato distrutto dalla “lunga restaurazione”. Ci viene in mente la poesia sulla Resistenza che Tobino usò come premessa al suo romanzo Il clandestino, quella che comincia con “Era un amore amici che doveva finire” e finisce con “Rimane in noi il giglio di quell’amore”. Forse anche in quelli del 68 (in molti se non in tutti) rimane il giglio di quell’amore.

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