1.4.12

I Borgia (Lucio Villari)

In occasione della presentazione di uno sceneggiato televisivo sulla Rete Due della Rai, Venerdì 3 settembre 1982, “la Repubblica” pubblicava una sorta di problematica ricognizione sui Borgia firmata da Lucio Villari. Ne riprendo grandissima parte anche come premessa ad altri post sui Borgia. (S.L.L.)
Lucrezia Borgia
Dilatata dallo scandalo, dalla personalità eccezionale dei protagonisti, dall’odio dei nemici, dallo stupore della gente comune; esasperata dalle invettive “piagnone” di Gerolamo Savonarola e dalle ciniche teorizzazioni di Machiavelli; gonfiata per secoli dal Grand-Guignol di una pseudoleneratura storica, la brevissima vicenda della f amiglia Borgia non ha mai raggiunto quelle proporzioni ragionevoli, che anche le leggende finiscono per acquistare nell'immaginazione collettiva. Oltre quella della «lunga durata» anche la categoria della «brevità» ha un senso nel giudizio storico. Cioè, gli avvenimenti circoscritti nel tempo dovrebbero essere meno esposti alle contraffazioni anche perché, spesso, questi non raggiungono i tessuti profondi della storia (non ne hanno, appunto, il tempo). E tuttavia sono le comete e le meteore a suscitare più emozioni e apprensioni del movimento regolare degli astri; e i Borgia […] sono proprio una cometa rinascimentale che sembra racchiudere i presagi malefici e le sventure che a quel tempo alle comete si attribuivano.

Mancanza di scrupoli
Simonia, venefici, assassinio, complotti, corruzione, incesto, e ancora, nepotismo, fratricidio, lussuria, volontà di potenza; un catalogo senza fine, affascinante perfino, di vizi assoluti che i Borgia — secondo l'opinione dei loro avversari — abitavano con suprema indifferenza morale. L'eco di questa condanna si è perpetuata nel tempo. Ancora oggi, tra gli studiosi, serpeggia un certo disagio interpretativo di fronte al problema dei Borgia, e vano è stato il tentativo di alcuni storici di riabilitare il demonizzato pontefice Alessandro VI e i suoi figli.
Eppure, basterebbe rifarsi alla fondamentale opera di Jacob Burckhardt sulla civiltà del Rinascimento italiano per scoprire che l'elemento centrale della cultura delle corti, cioè degli Stati rinascimentali italiani (e tra questi, in primo luogo, la corte pontificia) è l'esaltazione della libera espansione della personalità, senza riguardi per i vincoli morali; una sorta di amoralità liberatoria e paganeggiante. L' interpretazione di Burckhardt non è eccessiva; gli studi filosofici, iconologici e storici, compiuti in questi decenni soprattutto presso l'Istituto Warburg di Londra, hanno definitivamente svelato l'Olimpo degli dei pagani del Rinascimento, la loro «sopravvivenza» anche tra le pieghe del potere politico, il loro essere filigrana occulta e preziosa della cultura dell'Umanesimo.
Ebbene o di questo Rinascimento fanno pane i Borgia (il Papa Alessandro, con la sua sensualità, con l'ambizione sconfinata, con l’energia intelligente e spregiudicata; il figlio Cesare, dall'intuito politico straordinario e dalla straordinaria mancanza di scrupoli; la figlia Lucrezia, figura di donna moderna, aperta al mondo), oppure 1'età del Rinascimento è solo una galleria di figure e di atti edificanti positivi, e non, come è in verità, uno dei periodi più torbidi ed esaltanti della storia del nostro paese. E pare, per di più, un segno magico, di quella magia di cui è intessuta la cultura laica e religiosa del Rinascimento, che l'Era Moderna cominci con l’inizio del pontificato di Alessandro VI Borgia. Appena due mesi dopo la sua elevazione, Colombo scopriva l'America e al papa Borgia spettava il privilegio di tracciare, con la «linea alessandrina», i primi, duraturi confini del Nuovo Mondo.
Tutto è dunque singolare ed eccedente nella storia di questa famiglia, a cominciare dal Papa. Spagnolo, nato presso Valencia nel 1431 (il suo nome era Rodrigo Borja) egli non è il solo papa Borgia nella storia della Chiesa. Aveva ventiquattro anni quando lo zio, Alonso Borja, fu eletto pontefice con nome di Callisto III. Regnò solo per tre anni, ma ebbe il tempo di nominare cardinale e vice cancelliere della Chiesa il nipote, segnandogli una strada che questi percorrerà con abilità e sfrontatezza fino a raggiungere, l'I 1 agosto 1492, lo scopo che si era sempre prefisso. Rodrigo Borgia (il cognome era stato ben presto italianizzato) era di bell'aspetto; vigoroso ed amabile, il suo libertinismo era plateale e lo si può ancora «leggere» nel profilo lievemente protervo che il Pinturicchio gli ha dedicato in un affresco ora nelle sale Borgia del Vaticano. Ma lo scandalo delle sue numerose paternità non riguarda il periodo del suo pontificato, bensì quello precedente, quando Rodrigo era cardinale. Cesare, infatti, era nato nel 1475, Juan nel 1476 (verrà misteriosamente assassinato nel 1492), Lucrezia nel 1480 e Jofre (che il padre aveva però riconosciuto con qualche perplessità) nel 1481.
Erano tutti figli di una sola madre, Vannozza Cattanei Canale. Era logico dunque che, divenuto papa, Rodrigo applicasse le regole e gli statuti del nepotismo (questa sì, un'onda lunga nella storia della Chiesa) ai figli, ed è naturale che lo scandalo non fosse tanto in ciò, bensì nel fatto che un pontefice si comportasse, per così dire, come un buon padre di famiglia. Si è dovuto quindi sovraccaricare la politica familiare del papa di significati peccaminosi, ad esempio il presunto incesto con la figlia Lucrezia, perché la sia pur anomala pratica di nepotismo potesse diventare uno dei tanti «vizi nascosti, esecrabili a tutto il mondo» di cui parlò Savonarola nelle prediche da Firenze e nelle lettere contro Alessandro VI, inviate all'imperatore e ai sovrani europei.
Ma anche nelle invettive di Savonarola (che costeranno la vita al frate: prima scomunicato dal papa e poi impiccato e arso a Firenze) le pesanti allusioni a perversioni sessuali mascheravano, in realtà, il giudizio sulla svolta profondamente laica e pagana che il Rinascimento stava subendo e che nella Chiesa di fine secolo risaltava con una particolare drammaticità. «Questo, innanzi tutto, proclamo e affermo con certezza assoluta», scriveva Savonarola, «che Alessandro VI non è cristiano, e, non credendo in alcun Dio, sorpassa ogni eccesso di infedeltà ed empietà». Che il comportamento libertino e il nepotismo del papa fossero, in un certo senso, marginali, rispetto al dato centrale dell'empietà, lo prova il fatto che anche il più rigoroso avversario del papa all'interno della Chiesa, il castissimo cardinale Giulio Della Rovere (a lui succeduto nel 1503 col nome di Giulio II) proseguì con più violenza la politica interna ed estera del predecessore, accorciando, in tal modo, il tempo della ribellione di Lutero del 1517.
E' accertato, comunque, che Alessandro VI dimostrò, negli undici anni del suo pontificato, una grande abilità nella trattazione degli affari e nell'amministrazione della Chiesa. Anche Copernico, nel solenne e fastoso Giubileo del 1500, che il papa indisse con l'orgoglio e l'opulenza di un principe, venne a Roma a rendergli omaggio.

Ordine e tranquillità
Il progetto politico di Cesare Borgia, dopo il paganesimo, è l'altra chiave del problema. La carriera di Cesare fu però fulminea e totalmente laica, avendo egli rinunciato alla carica cardinalizia datagli dal padre, per scegliere la via della politica e delle armi. Ma l'ambizioso programma di Cesare trionfò e si dissolse in poco più di tre anni. L'assassinio politico, la congiura, la scaltrezza, furono le armi usate da Cesare per raggiungere un obiettivo di grande respiro storico: il progressivo abbattimento di signorie, potentati locali, autonomie feudali delle piccole Corti dell'Italia centrale per creare uno Stato unitario, grande, regolato da leggi giuste e da vere e proprie costituzioni. Dal 1501 al 1503 il successo sembrò arridere a Cesare che, nominato dal padre duca di Romagna, eliminò uno dopo l'altro gran parte dei signorotti umbri e toscani assumendo il potere nei territori della Chiesa. Il suo governo fu bene accolto dalle popolazioni cui, dopo decenni di faide municipali, diede ordine e tranquillità. Machiavelli ne fu incantato, ammirando in questo giovane venticinquenne sia la grande sapienza di governo sia la spietatezza contro gli avversari. Cesare divenne cosi, il modello del Principe cioè l’oggetto di una teoria politica che, anche per questa sua «referenza», rimane tragicamente e contraddittoriamente sublime. Il progetto di Cesare comprendeva anche un ipotesi anticipatrice di secoli, di liberazione dell’Italia dal controllo di
grandi potenze straniere. E fu proprio questa strategia che Giulio II cercò di seguire dopo la caduta del governo di Romagna seguita alla morte di Alessandro VI. Il nuovo papa fece arrestare Cesare ma cercò immediatamente di imitarlo assumendo la funzione di guida di una confederazione italiana il cui scopo fosse, intanto, la cacciata dei francesi dall'Italia. A ventinove anni la parabola di Cesare si era dunque conclusa; morirà tre anni dopo in Spagna.

Infamanti sospetti
Restava così solo la bella Lucrezia a portare il peso di una vicenda che la vide personalmente coinvolta, secondo l'uso, in tre matrimoni politici organizzati dal padre per regolare gli interessi internazionali della Chiesa e della famiglia. L'assassinio del secondo marito e il suo amore per la vita sfarzosa e mondana fecero riversare su di lei accuse infamanti e sospetti, mai provati, di veneficio. In verità, divenuta nel 1501 moglie di Alfonso d'Este, fu amata e rispettata dai ferraresi come una sovrana colta e sensibile. Non fa certo notizia che alla liberale corte di Ferrara, Lucrezia abbia portato un tocco di classe e che il suo comportamento sia stato, fino alla morte avvenuta a soli trentanove anni, elegante e irreprensibile. E non ha alcun rilievo — ulteriore prova, questa, del fascino del negativo nella storia — che proprio nel clima «lucreziano» di Ferrara sia germogliato l'Orlando Furioso (la prima edizione è del 1516) e che un discendente diretto della famiglia Borgia, Francesco, sia stato fatto, alla fine del Cinquecento, santo.

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