9.2.10

Luciana Castellina parla di Enrico Berlinguer.


Dalla Fgci dei bigliardini alla "terza via"
“Non ci può essere invenzione del nuovo, se si comincia dal seppellire la propria storia”. Sono parole di Enrico Berlinguer. Le cita, concludendo il suo intervento, Luciana Castellina alla presentazione del libro di Adriano Guerra La solitudine di Berlinguer. Il dibattito, introdotto da Giuseppe Vacca, si concentra soprattutto sul “secondo Berlinguer”, quello dello “strappo”, della “questione morale”, dei “pensieri lunghi”, della “diversità” comunista e dello scontro con Craxi.
Ma Luciana viene da lontano e da lontano parte: “Io sono della leva del 47, della Fgci dei bigliardini, che proponeva come modelli Curiel e Santa Maria Goretti. Ho lavorato con Berlinguer e con lui ho anche polemizzato. Nella Fgci di allora la grandissima maggioranza degli iscritti erano braccianti, mezzadri, operai, apprendisti; gli studenti erano solo il due per cento. Io lavoravo con gli studenti, partecipavo ai dibattiti universitari, dialogavo su Gramsci con i cattolici dell’Intesa e la linea di Berlinguer mi stava un po’ stretta. Ero tra i critici al congresso di Ferrara nel 1953. Proprio durante il Congresso ci fu annunciata la morte di Stalin. Piansi. Nella notte andammo alla stazione per salutare il treno che portava Togliatti al funerale. Non eravamo imbecilli e neanche del tutto ignari dei disastri dell’Urss; piangevamo perché quell’uomo nel mondo era il simbolo di un grande evento, la Rivoluzione d’Ottobre. La spinta di liberazione determinata da quell’evento non si era ancora esaurita. Per noi l’Urss già allora non era un modello, ma la sua esistenza era la condizione di una alternativa e Togliatti pensava che non si potesse in nessun caso rompere con Mosca.
Di sicuro ci fu un ritardo nel comprendere i processi degenerativi: in ritardo Togliatti per l’Ungheria, il Pci nel 68, lo stesso Berlinguer. Fatta per tempo, la rottura non sarebbe stata una resa. Allo strappo si arrivò troppo tardi e la sconfitta dell’Urss per questo è stata fatale non solo al Pci, ma a tutta la socialdemocrazia europea. Il messaggio che i più ne hanno ricavato è che il mondo è questo, quello che ci viene consegnato dal capitalismo, e che non ci sono traguardi da raggiungere”.

Si poteva rompere con il Pcus? La Castellina non ha dubbi: “Io continuo a credere di sì. Era il messaggio che confusamente lanciavamo noi, i dissidenti del “manifesto”. Non volevamo più rivoluzione, ma dissentivamo sull’analisi della fase e il nostro dissenso datava già da alcuni anni, veniva dal convegno del 62 sul nuovo capitalismo. Il “bombardare il quartiere generale” di Mao per noi significava soprattutto bombardare il "socialismo reale". Il 68 ci pareva una anticipazione, seppure confusa, delle nuove contraddizioni e dei soggetti che stavano emergendo. Berlinguer in quegli anni era prudente, ancorato alla strategia togliattiana, ma cercò in ogni modo di evitare la nostra radiazione. La nostra radiazione fu, in ogni caso, bellissima. Allora, se si dissentiva, si veniva presi sul serio, le idee e le parole avevano un peso. Ora nei partiti di sinistra c’è molta più libertà, ma le idee non hanno peso”.
Sull’“ultimo Berlinguer” la storica dissidente non è d’accordo con Guerra, che ridimensiona le novità dei primi anni 80: “Una svolta ci fu e anche un’autocritica. Già durante il periodo dell’unità nazionale Berlinguer si rese conto che il compromesso non aveva funzionato. Ed è da allora che comincia la sua solitudine all’interno del gruppo dirigente. Vi rammento che, senza neanche avvertire il partito, nel 1978 Luciano Lama, a nome della Cgil, propose al governo e al padronato una tregua triennale che prevedeva la sterilizzazione della scala mobile e apriva al padronato sul tema dei licenziamenti. Fu proprio in quella circostanza che si cominciò ad usare l’orribile termine di “esuberi”. La “svolta” fu la risposta in avanti che Berlinguer diede al fallimento del “compromesso storico”. Era troppo tardi? Forse no, vi ricordo che nelle elezioni del 1983, quattro anni dopo la fine dell’unità nazionale e in pieno craxismo, il Pci era ancora al 30 per cento dei voti. Le sconfitte più dure vennero dopo. Ginsborg ha scritto che Berlinguer era arcaico? Per me era il più moderno dei leader della sinistra europea. Al confronto il modernismo di Craxi era assai vecchio e provinciale, conservatore. L’austerità, beceramente interpretata anche da parte della nuova sinistra, conteneva una critica anticipatrice al modello di sviluppo, a quello che è stato chiamato mercatismo. L’apertura di Berlinguer ai nuovi soggetti fu autentica: lo ricordo a Milano per un incontro con le donne. Sì studiò pile di documenti di Sottosopra, delle femministe di via Dogana vecchia. Ed erano di lettura tutt’altro che facile! Quanto alla questione morale non si trattava di accuse ai socialisti che qua e là rubavano; Berlinguer parlava di una degenerazione della democrazia, di partiti che avevano occupato lo Stato, le istituzioni, la Rai, gli ospedali. Una critica anticipatrice. Non lesinò critiche anche ai suoi: nei cinici anni 80 rivendicava la diversità per rifiutare i costumi e i valori che andavano prevalendo. Non voleva un partito che fosse ricercatore di consenso, ma costruttore di senso”.
L’ultimo tema che la Castellina affronta è il rapporto con la socialdemocrazia: “La terza via non era un invenzione propagandistica, era una ricerca, determinata anche dalla questione ecologica. C’era un travaglio nella Spd, nella socialdemocrazie scandinave, nello stesso Labour inglese a quel tempo guidato da Michael Foot. Il rapporto con la socialdemocrazia fu significativo, specie con quella tedesca”.
Castellina ha ragione. Tanti hanno la memoria corta, ma nell’ultima campagna elettorale di Berlinguer, quella del 1984 in cui morì, per il Parlamento europeo, il suo Pci aveva come slogan: “Un voto in Italia per la sinistra in Europa”.

Nessun commento:

statistiche