6.8.11

I nipotini del dottor Moreau (di Maria Teresa Carbone)

Il 23 luglio ultimo scorso “il manifesto”, nella rubrica Ex Press, curata da Maria Teresa Carbone, riprendeva dalla stampa britannica un allarme che mi pare fondatissimo della più prestigiosa Accademia di medicina inglese. Riprendo il breve articolo con un titolo lievemente modificato, lasciando ad altri il compito di commentare. (S.L.L.)
Come si conviene al «Financial Times», il linguaggio è piuttosto asettico, ma la notizia rilanciata ieri da Clive Cookson, responsabile scientifico del quotidiano britannico, non può non richiamare alla memoria il romanzo di Herbert George Wells L'isola del dottor Moreau (anno di pubblicazione 1896), nel quale quello che diventerà uno dei prototipi dello scienziato pazzo novecentesco sottopone animali di ogni tipo a esperimenti tragicamente «umanizzanti».
Il libro, e i film che ne sono stati tratti (uno dei quali vedeva Marlon Brando nei panni dello stesso dottor Moreau), si chiudevano con la rivolta degli uomini-bestie, vittime feroci e innocenti della crudeltà dell'uomo.
Stacco all'oggi, e all'avvertimento che la Academy of Medical Sciences, istituita nel 1998 per verificare che i progressi nella medicina abbiano effettivamente conseguenze positive sulla salute delle persone, ha lanciato dopo uno studio di diciotto mesi dedicato alle ricerche presenti e future sugli «animali che contengono materiale umano». L'indagine ha infatti identificato tre tipi di esperimenti «che potrebbero presto diventare possibili e che suscitano particolare preoccupazione»: si tratta di modifiche ai cervelli animali effettuate allo scopo di riprodurre «funzioni cerebrali» umane, della fecondazione di ovuli o sperma umano in un animale e infine della «dotazione di caratteristiche percepite come esclusivamente umane - forma del volto, grana della pelle, linguaggio - su altre specie».
In realtà, gli autori dello studio segnalano di non essere a conoscenza di simili esperimenti, ma - spiega Martin Bobrow, genetista all'università di Cambridge, che ha coordinato i lavori - «abbiamo scelto di assumere uno sguardo proattivo verso un'area delle scienze che non ha ricevuto finora molta attenzione pubblica». Perché, se siamo lontani dallo humanzee, l'ibrido tra uomo e scimmia, cui lavorò negli anni '10 e '20 il russo Ilya Ivanovic Ivanov, già circolano nei laboratori statunitensi topi le cui cellule cerebrali sono per un quarto neuroni umani. Commenta Bobrow: «Se anche si sostituisse un intero cervello di topo con neuroni umani, avremmo quasi certamente ancora un topo, sia pure con dei cambiamenti interessanti. Ma su un cervello più ampio e complesso, come quello di un primate, è difficile prevedere cosa verrebbe fuori».

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