28.8.11

L'architettura e i potenti. Complessi e compromessi (di Maurizio Giufrè)

Sul “manifesto” del 7 agosto 2011 Maurizio Giufrè recensisce il saggio del direttore del Design Museum di Londra Deyan Sudjic The Edifice Complex («Complesso edilizio»), appena tradotto e pubblicato da Laterza con il titolo Architettura e potere. Come i ricchi e i potenti hanno dato forma al mondo, a cinque anni dalla sua prima pubblicazione. Trascelgo dall’articolo di Giufrè i passaggi che più mi hanno incuriosito (S.L.L.)
Rem Koolhaas - Il palazzo della tv cinese a Pechino
Il titolo originario in inglese, coglie meglio di quello italiano la natura dell'architettura dei potenti. L'inarrestabile spinta dell'ego di despoti e magnati hanno trovato nell'architettura, l'arte e la tecnica idonee ala sublimazione. È indubbio che fu una forma di psicopatologica ciò che mosse Albert Speer, l'architetto prediletto da Hitler, a progettare per Berlino la gigantesca cupola in pietra, acciaio e cemento alta 290 metri e capace di contenere una folla di 180mila persone. Così inimmaginabile era rimodellare Germania - il nuovo nome dato dal Führer alla capitale - pur avendo a disposizione masse schiavizzate di operai per erigere archi di trionfo, colonnati e un numero impressionante di mastodontici edifici come la Cancelleria: oggetti stranianti nel loro classicismo di pietra che sfidava il tempo e intimidiva i passanti.
Altrettanto egotico fu Stalin nell'azzardare la costruzione del Palazzo dei Soviet, progetto da Boris Iofan. Per fare spazio all'edificio fu distrutta con la dinamite, nel 1931, la cattedrale del Cristo Salvatore, ricostruita settant'anni dopo, da Boris Eltsin, lì dov'era sulle rive della Moscova. È noto che i programmi edilizi dei nazisti e dei sovietici seguirono il più retrivo classicismo, tradendo le avanguardie artistiche. A Parigi nell'Esposizione del 1937, i padiglioni dei due paesi, disegnati rispettivamente da Speer e da Iofan, non si sarebbero distinti se non per i loro simboli: l'uno con l'aquila e la svastica, l'altro con due contadini che impugnavano la falce e il martello.
Le vicende architettoniche di Hitler, Stalin o Mussolini occupano però solo i primi capitoli del saggio di Sudjic, perché sono altre le storie che mostrano il destino incrociato di politici e architetti che cercano di affermare la propria cinica visione del mondo. E se i politici hanno la smania di imporre i loro megalomani modelli, gli architetti, pur di costruire, «scendono a compromessi con il regime al potere, qualunque esso sia».
È esemplare, da questo punto di vista, la strabiliante carriera di Philip Johnson: dal suo asservimento alle mode e ai gusti dei potenti dipese la promozione di un'idea di architettura fine a se stessa. Quella che, invece di relazionarsi con la città, rincorre solo il desiderio di autocelebrazione.
Un altro caso esemplare è il grattacielo della televisione cinese a Pechino di Rem Koolhaas. «Non privo di accidentali qualità», quella sagoma monumentale di acciaio e vetro sembra ritorcersi su se stessa distinguendosi come una «specie aliena» tra le centinaia di edifici multipiano che gli stanno intorno. Il ritratto che Sudjic fa dell'architetto olandese è tra quelli meglio riusciti di tutto il saggio. Koolhaas, come Le Corbusier, è disinteressato alle questioni morali conseguenti al rapporto con i regimi dittatoriali. La sua tesi è che un'architettura radicale ha bisogno di un «sostegno forte». Per questa ragione non disdegna di disegnare negozi per Prada o per il regime cinese.
Sudjic mette in luceil significato di radicale autonomia dimostrato sia da Juscelino Kubitschek nel fondare Brasilia sia da Mustafa Kemal Atatürk nello spostare la capitale della Turchia da Instanbul ad Ankara: in qualità di «costruttori di nazioni» vollero dimostrare con l'urbanistica e l'architettura la loro estraneità dalla cultura europea il primo, e ottomana il secondo. Anche François Mitterand, con le vicende dei grands travaux parigini o Tony Blair, con quelle del Millenium Dome londinesi, hanno voluto identificare la loro azione politica ricorrendo alla magniloquenza delle grandi opere di architettura: spesso inutili per i cittadini e dannose per le casse statali.
Ogni giorno e in ogni parte del mondo un numero ristretto di architetti tenta di sottrarre - con i propri progetti - i potenti dalla caducità terrena. È proprio vero, come scrisse George Orwell che l'architetto può avere dei benefici dalla relazione con il potere, lì dove lo scrittore «non avrebbe altra scelta che il silenzio o la morte».

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