20.1.12

In ricordo di Luigi Tenco. A 45 anni dalla morte

Gli anni passano, il festival di Sanremo si avvicina e il 27 prossimo venturo saranno trascorsi 45 anni dalla tragica morte di Luigi Tenco. Recupero qui, dal “manifesto” del 27 gennaio 2007 un articolo di Vivarelli che non è solo rievocazione di una morte, ma di una amicizia, di una intelligenza inquieta, di un talento eccezionale. (S.L.L.)
Luigi Tenco mistero continuo
di Piero Vivarelli
Il 27 gennaio di quarant’anni fa se ne andava il musicista. Lasciandosi dietro una rete di intrighi e dubbi irrisolti. Di liste dei Servizi in cui figurava, minacce di morte dall’estrema destra, e un talento che ancora oggi lascia a bocca aperta.
Venti cantanti di nome in concorso (per non dire degli ospiti), ma pare che le canzoni, a parte una, siano piuttosto noiose. Giovani di prima qualità, a quanto si dice. Scenografie imponenti. Paolo Rossi che canta un inedito di Rino Gaetano (ma perché Gaetano non lo cantò?). Uno schermo gigante. Immagino che ci saranno naturalmente milioni di telecamere. Insomma, il super-Sanremo di superPippo ha già conquistato i favori dei mass media. Resta poi da vedere se si venderanno dischi. Tutto questo bailamme rischia di far dimenticare che quarant’anni fa a Sanremo, e precisamente il 27 gennaio 1967, ci lasciò colui che considero tuttora il mio miglior amico e che comunque resta il miglior cantautore che ci abbia mai dato la musica leggera italiana: Luigi Tenco.
Con Tenco vivevo praticamente insieme da quasi due anni, da quando cioè Ennio Melis, indiscusso capo della Rca italiana, lo aveva giustamente voluto a Roma dandogli praticamente carta bianca. Ricordo che ogni nuovo disco della Rca che usciva veniva ascoltato prima da Luigi e dal sottoscritto. Il che ci procurò più di un, diciamo così, malumore. Dopo la sua fine è corsa anche qualche voce inesatta circa rapporti difficili fra lui e la casa discografica. Niente di vero. Il rapporto era ottimo.
Si è molto discusso anche sul fatto che la canzone Ciao amore ciao portata a Sanremo fosse stata sottoposta a censura. Anche questa è fantasia.
È vero che la prima versione del pezzo parlava di un ragazzino che sulla solita strada bianca come il sale vedeva passare dei soldati che forse andavano alla guerra e ai quali diceva, appunto, ciao amore. In realtà fu lo stesso Tenco a pensare che il suo brano potesse essere frainteso o che, magari, non era adatto per essere cantato insieme con Dalida con la quale era nato un grande e assolutamente corrisposto amore.
Ripeto: nessuna censura. Luigi volle rimetterci le mani con la collaborazione del sottoscritto per il testo e del maestro Reverberi per la musica. In realtà sia io sia Reverberi ci abbiamo messo le mani men che niente. Rimane il fatto che l’ultimo, e unico, album da lui inciso per la Rca è di una bellezza rara. Canzoni impegnate, ma mai noiose. Per molti l’impegno è qualcosa che pochi capiscono al di fuori dell’autore. Luigi ci teneva al pubblico, eccome. In realtà fece una serie di brani nazional-popolari, ma nel vero senso che dava Gramsci a questo termine, ovverosia comunisti.
«E se ci diranno che è tradimento apprezzare la gente di un altro colore, poiché c’è gente dalla pelle bianca che ha fatto cose di cui vergognarsi, bisogna rispondere no. O, anche, Io vorrei essere là dove i soldati muoiono».
Luigi che, come tutti i grandi, veniva dal jazz, ammirava però e metteva nelle sue canzoni anche rimandi alle musiche popolari di altri paesi. Ricordo che qualche mese prima di Sanremo facemmo insieme un giro per varie città d’Italia per raccontare alla stampa specializzata il senso delle sue nuove canzoni. Io parlavo poi lui, al piano, faceva capire di che si trattava: un’operazione culturale che non era mai stata fatta prima. Fui proprio io, invece, a evitare che andassimo in Senegal. C’era, a Dakar, il festival musicale delle arti nere. Lui pensava di prendere la chitarra e di andare per dimostrare che anche noi non eravamo così lontani da loro. Qualche tempo prima a NewYork i compagni delle Black Panthers con i quali avevo avuto un intenso rapporto mi spiegarono che i safari politici non erano necessari.
Venite pure a Harlem, ma soprattutto diffondete le nostre idee nei vostri ambienti. Lo dissi a Luigi che capì subito, anche se l’idea di un viaggio a New York per una visita a Harlem con la sua chitarra fu un po’ un progetto che per quanto successe tragicamente dopo non riuscimmo a realizzare.
Per capire bene le idee di Luigi Tenco bisogna pensare che, iscritto a ingegneria, si era poi rifiutato di laurearsi perché non aveva nessuna intenzione di lavorare con i capitalisti delle costruzioni. Apprezzò anche molto l’idea del Piper club dove andavamo tutte le sere perché, diceva giustamente, un locale da ballo che si può frequentare senza distinzione di classe era esattamente qualcosa di nazional-popolare.
E aveva ragione: al Piper potevi trovare una Carrà allora agli inizi, Nureyev in tournée e l’operaio del Quadraro. Per questo ci andavamo volentieri perché è ridicolo pensare che il proletariato non avesse diritto al divertimento.
Anche sui film la pensava allo stesso modo. Ricordo, fra i tanti, che mi consigliò Quien sabe?, un grande spaghetti-western di Damiano Damiani. Aveva insomma le idee chiare e giuste. Da questo punto di vista, ripensandoci col senno di poi, mi viene il dubbio che possa essere stato uno sbaglio andare a Sanremo. Credo che molto dipese dal voler fare qualcosa insieme al suo grande amore, Jolanda Gigliotti in arte Dalida. Fra l’altro all’hotel Savoy, pur essendo ufficialmente fidanzati, non andarono a dormire insieme.
Lei, forse perché una diva già affermata, in una bella camera a due letti. Lui relegato in una cameretta dei piani bassi, di quelle che nel passato erano riservate agli autisti o ai camerieri che assistevano i signori anche in vacanza. Bisogna dire che nelle stesse condizioni c’erano anche altri cantautori in seguito affermatisi alla grande, come ad esempio Lucio Dalla. Ma veniamo alla tragica serata. Per capire meglio lo stato d’animo di Luigi bisogna sapere che fino a quel momento come cantautore non si era mai esibito in pubblico, a parte ai «lunedì della Rca» al teatro delle Arti a Roma, che erano però serate per intenditori e amici, non il pubblico vero che lui conobbe solo in una serata di fine anno che gli aveva procurato Adriano Aragozzini. E probabilmente anche per questo quella sera, prima di andare a cantare, volle prendere una serie di tranquillanti mischiati a un superalcolico. Un cocktail micidiale. Il giudizio delle giurie popolari fu negativo. Lo stesso si dica per la giuria di ripescaggio, assolutamente addomesticata per favorire altri, dove il povero – e competente – Lello Bersani non ce la fece contro il parere dell’incompetente giornalista Ugo Zatterin. Andai io a svegliare Luigi che si era addormentato sopra un tavolo del sottopalco del fatidico salone delle feste del casinò dove c’erano i camerini.
Gli dissi comunque di non preoccuparsi perché ad Adriano Celentano, con Il ragazzo della via Gluck era successo lo stesso e poi era diventato campione di vendite. Luigi però non la prese bene. Uscimmo in strada e lui mandò letteralmente affanculo due ragazze che gli avevano chiesto l’autografo. Dovevamo andare a una cena offerta dalla Rca in un ristorante del porto,ma lui disse che non se la sentiva. Sarebbe andato in albergo a fare un riposino e poi ci saremmo visti per bere una cosa tutti insieme. Al ristorante mancava solo lui. Mi pare di ricordare (di anni ne sono passati tanti) che Dalida se ne andò prima. Noi rimanemmo fino a che Altieri, il manager dei Rokes, ci disse che il sottoscritto e Sergio Modugno (altro grande amico di Luigi) dovevamo correre in albergo.
Andammo, senza immaginare che cosa ci attendeva. Sulla porta dell’hotel ci accolse in lacrime il maestro Cini. Dalla piangeva seminudo su un divano. Si è suicidato! Si è suicidato!
Pensai alla possibilità di una lavanda gastrica, ma mi fu spiegato che con una pallottola in testa non c’era più niente da fare.
Non vollero che scendessi nella tragica camera. Andò Modugno e prese la famosa lettera che ha fatto tanto discutere. La lettera in realtà era per Sergio, per il maestro Reverberi e per il sottoscritto. Solo noi potevamo capire, dopo anni che stavamo insieme, il suo vero significato.
Io commisi un errore: detti la lettera al commissario Molinari spiegandogli che andava consegnata solo al giudice istruttore. Pochi minuti dopo il biglietto per gli amici finiva nelle mani dell’Ansa. Il resto è storia tanto nota quanto turpe.

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