9.3.12

Una grande famiglia di Sicilia. Fasti e amori dei Moncada (di Marco Vallora)

E' «uscendo» da un libro bellissimo e dotto come questo, dopo lunghe ore di dedizione capillare e di curiosità appagata, così come si esce felicemente da una convalescenza adolescenziale o da un'avventura esotica, è saltandone fuori, mutati e arricchiti, che ci si rende conto di quanto in fondo nulla si conosce della nostra storia (del medioevo, per esempio) e di quanto si viva di stolti pregiudizi (protetti dalla facile e gratificante immagine d'una Sicilia sempre e soltanto gattopardesca, cioè attiva nel non voler mutare nulla e neghittosa, o peggio, nell'uso del potere).
La Sicilia dei Moncada, edito da Domenico Sanfilippo, a cura di Lina Scalise e di una pleiade di dottissimi eruditi dalla scrittura però assai gradevole. Arricchito dalle vive fotografie di Gaetano Gambino, non può esser confuso con un coffee table book da dono natalizio: le immagini di quadri, architetture, stampe ed emblemi, sono il corredo iconografico per la straordinaria epopea d'una famiglia, nel giro tortuoso dei secoli. Venuta dalla Spagna (all'epoca dei Vespri) e tornata nella Spagna, ha creato in Sicilia una vera e propria corte munifica e dispendiosa, capace di stare alla pari non soltanto con le più celebri e celebrate dinastie del Nord, dai Gonzaga agli Este ai Savoia, ma dell'intera Europa, parola di storico, Aymard.
Una ricchezza che non è tramata soltanto di terre frumentarie e possedimenti e alleanze politiche, ma di precocissima attenzione alla cultura, al mecenatismo religioso e architettonico, «all'arte signorile di adoprare le ricchezze», come testimonia un delizioso apologista di famiglia. di letterati e artisti ed architetti Moncada ce ne sono ancor oggi, e vivaci. E basta passare rasenti al fantasioso barocco dei palazzi Moncada di Caltanisetta o Paternò, magari elegantemente sdrusciti e negletti dagli eredi, oppure «alla più bella casa che vi fusse in Palermo» e che c'è ancora, con quel suo nome visionario di ajutamicristo, per annusare odor di prestigio (alla loro corte si segnalava pure un distillatore, Antonio Russotto, che con fragranze di cedro e gelsomini contrastava i miasmi delle paludi). Ma chi potrebbe sospettare che dietro quelle facciate nobili e come cariate si nasconde e naufraga una messe di notizie, dati e squisitezze, che infilandovi dentro, per la porta regia della Storia erudita, vi par d'esser caduti nel trabocchetto magnifico d'un romanzo di Klossowski o del Monaco Nero? Con storie di regine rapite per salvarle in Ispagna (nella fattispecie Bianca di Navarra: come in un'opera di Donizetti) e città acquisite e popolate forzosamente quali Caltanisetta la barocca, disegnata urbanisticamente sino a parere un'aquila. Matrimoni diabolicamente intrecciati, anche tra cugini e figli di diverso letto, degni di richiedere un'apposita bolla papale (e un Colonna, che si oppone, vien spedito alla corte di Madrid e forse avvelenato). E poi accuse di fellonie, e geniali giochi di dama territoriali, per trattenere in casa doti miliardarie, che vanno e vengono, come la tela di Penelope. Certo, fan ridere le rivendicazioni televisive delle tarde femministe-capitane d'industria, quando si scopre qui di che eran capaci queste dame di ferro, per esempio l'incredibile Aloisa cinquecentesca, «lontanissima dalla cupidigia di quelle Imperadrici, che ammuchiaron tesori per seppellirli». E che alla maniera spagnola diedero il proprio illustre cognome ai giovani figli, spesso più dediti alle arti che non alla guerra (come il gracile Antonio, che in ex-voto da Vermicino manierista risorge miracolato da una cisterna). Forse con una punta di orgoglio insulare, Stefano Condorelli riesce a convincerci che «le macchine dell'ingegno» manipolate per lo più da donne volitive, come Aloisia o Luisa, «ch'havea senno da governare i Reami», evocano papale papale «le attuali operazioni di fusioni e acquisizioni aziendali», onde «conservare la propria identità, es Daimler-Chrisler, San Paolo-Imi». E Domenico Ligresti parla tranquillamente di: Network Moncada. A noi diverte di più sorprendere un Moncada, mentre con l'umanista Bagolino, «inventa» l'archeologia. «Hor noi, ch'eravamo desiderosi di vedere questi seplochri, presimo le zappe, i restelli e altrui istrumenti atti a questo negocio et ivi trovamo un corpo morto con un vase di creta, il quale tengo io nel mio museo per curiosità». Una curiosità, che si allunga sino a noi, oggi. 

“La Stampa”, 18 settembre 2007

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