2.3.12

Un grande poeta. In morte di Franco Fortini (di Giovanni Raboni)

Franco Fortini
Per molti anni ho pensato che l' importanza e l'unicità della figura di Fortini nella cultura italiana dell' ultimo mezzo secolo fossero strettamente legate al suo essere, da sempre, un grande intellettuale capace di servirsi con assoluta efficacia, oltre che degli strumenti della persuasione razionale, anche di quelli dell'emozione. Insomma, un intellettuale artista, un intellettuale poeta: definizioni che credo di non aver mai usato esplicitamente, ma che avevo ben radicate nella testa e che suppongo fossero e siano dunque facilmente desumibili da quanto ho avuto occasione di scrivere, fino a un certo punto, su Fortini.
Mi sbagliavo.
Fortini (me ne sono reso conto alla luce dei suoi ultimi, stupendi esiti testuali, per esempio della sua ultima raccolta di versi, Composita Solvantur) è stato – è - soprattutto e prima di tutto un grande poeta. Un poeta che ha avuto la spaventosa, dolorosa energia necessaria per proiettare la propria immaginazione al di là della propria privatezza, oltre i confini del proprio Io; un poeta che ha saputo trovare pane per i denti della poesia anche nel dramma delle idee, nella tragedia della storia, nel decomporsi e ricomporsi del mondo. Era impossibile imitarlo; per questo ci è sembrato così difficile, in alcuni momenti, capirlo. Per quanto mi riguarda, credo di esserci riuscito solo nel momento in cui ho cominciato a rendermi conto che non esistevano un Fortini autore di versi e un Fortini ideologo, critico, polemista eccetera, ma un solo Fortini che esprimeva e al tempo stesso negava se stesso in tutti questi modi e registri, muovendosi su tutti questi piani in apparenza diversi e distinti, in realtà collegati da un'esigenza o intenzione unica e così forte da assumere a tratti le caratteristiche dell'ossessione.
Quale fosse questa intenzione, quale sia stato il filo conduttore di tutta la ricerca di Fortini, è probabile che lo sappiamo tutti, ma è ancora più probabile che ciascuno di noi lo sappia a suo modo. Il modo in cui lo so o penso di saperlo io è questo: a differenza della quasi totalità, forse della totalità degli intellettuali italiani di questi decenni, in nessun momento della sua vita Fortini si è rassegnato a pensare al presente come a qualcosa di immodificabile e d'irredimibile.
Una volta, parlando di un libro di Fortini, Gianni Vattimo usò la parola "inattualità ". Non sono sicuro che l'abbia usata in senso positivo, ma gli sono stato subito grato d' averla usata. Non si può descrivere in modo più fulmineo quella che a me sembra, appunto, l'intenzione, l'"ossessione" di fondo di Fortini: la pretesa costante, ostinata, a nessun costo abbandonata, di parlare del presente in nome del futuro. E quello che fanno, per natura e quasi per costrizione del loro specifico ufficio nel mondo, i poeti; è, come dire?, il lecito, delimitato, tollerato scandalo della poesia.
Ma Fortini - questa la differenza, questo il motivo della sua unicità - questo scandalo ha sempre voluto portarlo fuori del ghetto, fuori della riserva indiana del "genere" poesia; del presente e del futuro, del presente futuro, ha sempre voluto parlare, oltre che con il linguaggio "opaco" dell' allegoria, anche con il linguaggio "trasparente" dell' analisi critica e storica, della filologia, dell'economia politica, dei rapporti di potere...
Ora, parlare del presente in nome del futuro vuol dire parlare del mutamento, cioè di quel sogno che regolarmente, a intervalli più o meno regolari (da ultimo, direi, a intervalli sempre più brevi, tanto brevi da non consentirci nemmeno di tirare il fiato) ci viene spiegato o intimato che non è più possibile, che non è più il caso di sognare. Fortini, fino all' ultimo giorno della sua vita, si è sempre rifiutato di accettare e persino di prendere in considerazione questo consiglio: ecco il segno, il segreto della sua "inattualità "; ed ecco anche, credo, il motivo per cui non è lecito scindere in lui il poeta dal saggista ideologo, il poeta "per professione" dal poeta "per scelta". Sono convinto che il lascito di Fortini non sia quello di una parola da interpretare, ma quello di una parola da applicare. E un lascito che non chiede ammirazione o pietà, ma una scelta di campo: o torneremo a credere, come Fortini non ha mai smesso di credere, alla possibilità di un mutamento del presente in nome del futuro oppure l' opera, tutta l' opera di Fortini, dalle poesie ai saggi critici, dagli scritti polemici alle voci d'enciclopedia, è destinata a diventare un libro "ermetico", un libro di devozioni o di profezie. Ciò di cui la morte di Fortini ci trasmette l' incarico è fare in modo che questo non avvenga: non per la sua anima, che è già salva, ma per la salvezza della nostra.

Postilla
L'articolo fu pubblicato il 29 novembre 1994, all'indomani della morte di Franco Fortini, sul "Corriere della Sera". Il titolo originario era I versi di un ospite ingrato nel dramma delle idee.

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