13.3.12

1945-1956, un decennio che durò 11 anni di Aldo Natoli

Il brano qui postato, di Aldo Natoli, è parte della recensione a un libro di Paolo Spriano, Le passioni di un decennio 1946-1956 appena uscito per Garzanti, pubblicata su “La talpa giovedì” de “il manifesto” il 9 ottobre 1986. Il volume di Spriano si presentava non come un libro di storia, ma per la storia e raccoglieva con il commento dello storico comunista documenti inediti, pagine di diario, lettere, con l’ambizione di proporre una storia con il gusto dei “se”, distruggendo i luoghi comuni accumulatisi nel tempo sugl’incontri e gli scontri politici del primo decennio dell’Italia repubblicana.
Il recensore dà valore al libro nel suo insieme e indica alla generale attenzione alcune pagine preziose o non scontate come il ritratto del giovane Calvino costruito sulle lettere inviate a Spriano o alcuni aspetti poco studiati del carattere di Togliatti (furore e impotenza) evidenti in alcune missive scritte durante la crisi ungherese e contenenti qualche passaggio di involontaria comicità, come l’attacco ai «controrivoluzionari della casa editrice Einaudi».
La parte più importante dell'articolo - quella qui ripresa - a me pare essere la discussione che Natoli apre su tre decisivi punti di snodo, collocati all’inizio del decennio indicato da Spriano o addirittura prima di esso come la caduta del governo Parri nel 1945: la caduta del governo Parri, il ruolo degli Usa nella cacciata dei socialcomunisti dal governo, il condizionamento sovietico nella scarsa reazione comunista a tale cacciata.  (S.L.L.)   

Non è forse un po' arbitrario fare iniziare il decennio nel 1946, cioè con la fondazione della repubblica; non è una concessione al luogo comune che si voleva esorcizzare? Infatti, si potrebbe fare anche l'ipotesi (su cui discutere naturalmente) che a quel momento i giochi fossero in parte già fatti e per due motivi allora (dopo il 2 giugno 1946) inattesamente concorrenti.
Il primo motivo è che talune carte decisive per l'esito del gioco erano state scoperte nel 1945, già subito dopo la liberazione. Io mi sentirei di sostenere che questo è il periodo su cui in particolare bisognerebbe procedere allo «scavo», specialmente da parte della storiografia comunista. Fino a che punto allora il movimento che era uscito vittorioso dalla resistenza subì sconfitte che non erano dovute solo e prevalentemente a un rapporto di forze sfavorevole, ma anche, e in modo decisivo, a una valutazione tattica eccessivamente cauta, dunque sbagliata? Penso alla accelerata liquidazione dei Cln nella primavera avanzata e alla caduta del governo Parri alle soglie dell'inverno. Queste furono battaglie perdute senza combattere; e non è affatto dimostrato che i Cln si potessero difendere solo con le armi. Su questo punto, «la prospettiva greca» agitata da Togliatti, era una semplificazione del problema; il Congresso dei Cln, se mai fosse realmente avvenuto, avrebbe forse potuto liquidare quella minaccia (siamo, come è ovvio, nel campo dei se, dove ci ha invitato lo stesso Spriano). E d'altro canto, che senso poteva avere continuare a parlare di «democrazia progressiva» una volta dispersi i Cln che, soli, avrebbero potuto costituirne il supporto di base, diretto? Tante domande, tanti problemi, dice Brecht. Quaranta anni dopo le domande (per lo storico) permangono, anche se i problemi (per il politico) sono ormai estinti.
Sempre divagando nel campo dei se si potrebbe fare un discorso analogo sulla caduta del governo Parri. La data si trova fuori dal decennio delimitato da Spriano, che si limita a scrivere che furono i liberali a farlo cadere. Così il minuscolo Partito liberale potè mettere la propria firma sulla principale svolta politica avvenuta in Italia dopo la liberazione. Ma cosa fecero il Pci e il Psi per sostenere Parri, per opporsi alla caduta di quel governo? E si poteva fare qualche cosa? Si doveva? Io penso che si doveva e si poteva, a meno che un'altra prospettiva politica non fosse già stata adottata dai massimi dirigenti dei partiti di allora. E poiché questa era allora la situazione (e qui non interessa nemmeno chiedersi se ci fosse stato un accordo preventivo con De Gasperi) il discorso torna ad essere: quella valutazione era giusta o sbagliata; l'idea che Togliatti si era fatta sulla natura della De era giusta o sbagliata? Poiché da quel dicembre 1945 quel partito ha governato ininterrottamente su questo paese, queste domande meriterebbero una risposta e non è detto che essa non possa essere data, abbandonando l'ambito dei se e avventurandosi arditamente in quello della storia reale. Nell'attesa, chi può dimenticare le pagine dolenti e profetiche di Carlo Levi sulle dimissioni di Parri (L'orologio)?
Seconda questione: la crisi del 1947 che portò all'esclusione dal governo dei comunisti e dei socialisti. Qui Spriano ha voluto confutare «la leggenda tenacemente alimentata dalle stesse sinistre» che quella crisi sia stata «il frutto di un ordine di oltre Atlantico», dell'amministrazione Truman. Io penso che era giusto correggere tale semplificazione propagandistica che ebbe allora largo corso. Non fino al punto da sostenere la natura «endogena» di quella crisi con l'aiuto delle testimonianze di Giorgio Amendola e Giulio Andreotti. Beninteso, chi non sa che vi furono potenti fattori endogeni, dal Vaticano a quello che De Gasperi chiamava il «quarto partito» della grande borghesia? E' anche vero, però, che la svolta fu pilotata, preparata, seguita nei dettagli dall'amministrazione Usa in collaborazione con l'ambasciatore Tarchiani, che fu l'infaticabile tessitore delle trame che dovevano portare a quel risultato. Fattori edongeni e fattori esogeni cooperarono assiduamente nel quadro divenuto ormai dominante della guerra fredda intenazionale, già in atto dalla seconda metà del 1946. Fuori da ogni deformazione propagandistica, può restare il dubbio su chi avesse il bandolo della matassa? Qui, mi sembra, vi è poco spazio per i se, se non per l'ipotesi assai plausibile che senza l'iniziativa e l'appoggio «esogeno» il colpo del 1947 difficilmente sarebbe riuscito ( non si dimentichi che il 2 giugno 1946 comunisti e socialisti avevano pur avuto la maggioranza relativa dei voti).
La terza questione si riferisce al comportamento di Pietro Secchia quando, alla fine del 1947, a Mosca riferisce a Stalin e ai suoi più vicini collaboratori sulla situazione italiana, giungendo a criticare quelli che lui giudicava debolezza e errori della politica di Togliatti, per sostenere che sarebbe stato invece possibile riprendere l'offensiva, non con l'insurrezione, ma con lotte di massa più incisive e decise. Come è noto, Stalin respinse la proposta di Secchia:«oggi non si può» disse.
L'interpretazione di questo episodio non è semplice. Davvero Secchia puntava a creare le condizioni di una rottura rivoluzionaria? La politica più a lungo termine di Stalin era per allora più fedelmente interpretata dalla moderazione di Togliatti? Di qui le due immagini stereotipate di Secchia, «uomo che amava la lotta armata» ; di Togliatti, in doppio petto borghese. L'una e l'altra potrebbero essere false, luoghi comuni sotto i quali bisognerebbe «scavare». In realtà si potrebbe anche sostenere che Secchia, quando parla a Stalin, non vuole affatto l'insurrezione, ha troppa esperienza in questo «ramo» per abbandonarsi a simili illusioni. Vuole puramente e semplicemente la «democrazia progressiva» e questa, come i tre anni precedenti hanno dimostrato, non può procedere che sulla lotta delle masse, anche troppo frenata sino a quel momento. Secchia sarebbe il vero rappresentante di una via italiana al socialismo condotta non solo dall'alto, ma anche dal basso. In questo senso, la sua è una critica di fondo della linea politica praticata da Togliatti. Questi, a sua volta, sarebbe l'esatto interprete della strategia di Stalin: lunghi anni di attesa sul terreno della democrazia (borghese, non progressiva, cioè senza risorse) sino al momento in cui l'Urss sarà in condizione di intervenire attivamente, appoggiare e rendere possibile un altro passo avanti della rivoluzione comunista nell'Europa occidentale. Ecco un'altra possibile chiave di lettura della storia di quegli anni, precipitata poi con la morte di Stalin nel 1953 e con la grande crisi del 1956.

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