27.1.13

Lutero e Savonarola. Due terribili frati (Valerio Castronovo)


Martin Lutero
Qualcuno, fra i protestanti, ha parlato di Savonarola come di un precursore di Lutero. E c' è chi l' ha dipinto come un avversario della tirannide e un vindice della repubblica. Altri, ancora, ne hanno fatto un antesignano della democrazia in chiave laico-patriottica (così Pasquale Villari) o della conciliazione fra religione e scienza in una prospettiva neoguelfa e cattolico-modernista (basti pensare a Tommaseo, Joseph Schnitzer e Roberto Ridolfi). Insomma, attorno alla persona di fra' Girolamo, idealmente trasfigurata da un'iniqua scomunica papale, e del suo supplizio nel maggio 1498, sono fioriti i miti più diversi.
Così come non sono mancati gli anatemi, non soltanto da parte di coloro che a suo tempo avevano bollato Savonarola alla stregua di un indemoniato e di un eretico, ma anche di quanti hanno visto in lui un visionario esaltato e un demagogo, vittima alla fine dell' intolleranza e delle fobie che egli stesso aveva scatenato e che gli si erano ritorte contro.
D' altra parte, ancor oggi è difficile trovare giudizi concordi su una figura così complessa, esaltata dagli uni, bistrattata dagli altri.
Quello che si può dire con certezza, è che Savonarola non fu un santo, come l'hanno effigiato i "piagnoni" suoi seguaci, e neppure un grande riformatore religioso.
Ben più creativa e poderosa fu la personalità di Martin Lutero, al di là di certe analogie che pur è possibile riscontrare fra il frate domenicano italiano e il monaco agostiniano tedesco: lo stesso temperamento impetuoso e aggressivo, la medesima capacità di suggestione esercitata attraverso i gesti e la parola, una sensibilità spirituale che per entrambi traboccava in una passione mistica e in un'esperienza ascetica carica di pathos medievale.
Ma, detto questo (e ci sarebbe già da discutere fino a che punto si possano spingere simili paragoni), resta il fatto che Lutero fu il protagonista di un'autentica rivoluzione che segnò l'avvento dell'età moderna nel suo momento religioso (la libertà del cristiano salvato dalla propria fede e dalla grazia di Dio) e nel suo momento politico (la testimonianza di sé e della propria coscienza, quale germe e giustificazione dei diritti fondamentali dell'individuo). Sicché ancor oggi - come osserva Hellmut Diwall in una appassionata biografia (Lutero, il frate che divise e incendiò l' Europa, Rizzoli, pagg. 437, lire 30.000), che pur fa giustizia di alcune interpretazioni sovraccariche di significati simbolici - l'eredità spirituale di Lutero rimane viva e stimolante, malgrado i cinque secoli che ci separano da lui: non solo per l'impegno di cui diede prova nel ricercare la verità, ad onta del mondo e dei santi, o per il suo rifiuto di ogni tabù, a dispetto dei dogmi, ma anche per le angosce, i drammi e le contraddizioni con cui egli visse questa sua incrollabile esigenza di percorrere sino in fondo le strade più difficili della fede e della libertà. Anche Savonarola recepì i fermenti e le aspirazioni di palingenesi del suo tempo, denunciò le degenerazioni del papato e il decadimento della morale pubblica, invocò un rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche e della società. Ma le sue soluzioni non si collocavano nella prospettiva di una nuova era; e la sua sfida al potere non ebbe mai lo spessore teorico e la vigorosa coerenza che caratterizzarono il pensiero e l'opera di Lutero.
Gerolamo Savonarola
Queste differenze emergono ancor più nettamente dal saggio (il primo di una trilogia) che Franco Cordero ha dedicato al domenicano ferrarese (Savonarola. Voce calamitosa 1452-1494, Laterza, pagg. 368, lire 35.000). Ripercorrendo passo a passo le vicende di fra' Girolamo, l' autore ne svela gli aspetti più intimi: i penchants masochistico-femminili e le libidini necrofiliache dei suoi deliqui mistici, gli artifici scenico-verbali impiegati per ravvivare i suoi sermoni (le prime prove dal pulpito erano state un disastro, per la voce troppo fioca e il gesto sgraziato), gli espedienti escogitati per richiamare gente e far spettacolo (che cosa c'era di meglio delle profezie, le più ardite e incandescenti, per suscitare sensazioni forti e per imporsi all'uditorio?). Di fatto, proprio questo genere di "comparse", di prediche roventi accreditate come "divine illuminationi" (in cui la condanna della "deboscia e fasto" del clero, la deplorazione dei "peccati della Italia" e la fustigazione dei costumi fiorentini, si accompagnavano alla predizione di un "gran flagello salutifero" per la Chiesa di Roma e l'intera penisola), decretò il successo strepitoso che in breve tempo Savonarola seppe conquistarsi. L'eco delle sue chiose all' Apocalisse, più che alcune sue operette spirituali di tono edificante, finì coll'imporlo anche negli ambienti più colti e sofisticati: tant'è che da quaresimalista in Duomo divenne nel 1491 anche priore del convento di San Marco. D'altra parte, il parossismo agonistico e il profetismo messianico di Savonarola traevano forza e legittimazione dalle infamie e dalle scelleratezze che brulicavano un po' dovunque, sullo sfondo di una società tanto ricca e infiacchita quanto cinica e feroce.
La Chiesa, innanzitutto - andava ripetendo Savonarola -, "haveva a esser flagellata, rinnovata, et presto", ridotta com'era a sentina di ogni malaffare e depravazione. E Firenze, "ombelico d' Italia", avrebbe potuto, una volta emendata dai suoi vizi, guidare l'opera di rinnovamento del mondo cristiano, diventare una "nuova Gerusalemme". D'altra parte, a compiere la vendetta divina nei confronti delle supreme gerarchie della cristianità, cadute scandalosamente nell'incredulità e nel lassimo, e a redimere l'Italia dalle ingiustizie e dalla corruzione che l'opprimevano, sarebbe sceso d’oltralpe un "novello Ciro". Ma quando Savonarola predisse, nella quaresima del 1494, l'uragano che si sarebbe abbattuto sull' Italia, già si sapeva dei preparativi di Carlo VIII e delle trame politiche che avrebbero spalancato alla sua spedizione le porte della penisola. Quindi è lecito pensare che dagli oracoli che andava pronunciando, Savoranola s'aspettasse non già qualche pio ravvedimento, quanto piuttosto un rafforzamento del suo carisma personale. In effetti, l'unico risultato cui approdò la preveggenza pur tardiva del domenicano fu il ruolo di interlocutore privilegiato col re di Francia che la Signoria gli affidò quando, nel novembre 1494, si trovò costretta a mandare a Pisa una propria ambasceria per stornare da Firenze la minaccia dell'esercito francese. Ma le intercessioni del frate non cambiarono di una virgola le condizioni che erano già state imposte a Piero de' Medici. E soprattutto l'atteggiamento di Carlo VIII, interessato a spillar quattrini, smentì in pieno le profezie savonaroliane sulla missione dell'uomo "mandato da Dio" che, nelle spoglie di "ministro dell' Onnipotenete", avrebbe dovuto rigenerare l'Italia e riscattare la religione dalle condizioni di avvilimento in cui versava.
E’ tuttavia innegabile che Savonarola fosse mosso da un ardente zelo religioso e da sentimenti autentici quando deprecava la simonia e la licenziosità dei massimi dignitari della Chiesa (alla cattedra di san Pietro sedeva ancora Alessandro VI Borgia) e quando addebitava al malcostume clericale la causa principale della vergogna e del vituperio a cui era esposta l'Italia. Le sue severe reprimende anticuriali, così come le sue furenti invettive contro le empietà e le nefandezze pubbliche e private che la Chiesa finiva per coprire con la sua latitanza, erano del tutto fondate. Dove Savonarola risultava meno convincente, era nell'indicazione dei rimedi a questo stato di cose. I suoi orientamenti dottrinari erano di per sé estranei a una vera e propria metamorfosi della Chiesa: quasi bastassero il turbamento degli animi, che egli riusciva a destare con la sua concitata eloquenza, o le aspettative apodittiche di rivolgimento che sollevava fra i più umili e malcontenti con le sue profezie di sciagure cosmiche, per dar vita a un radicale movimento di riforma. Il tratto distintivo della predicazione di Savonarola stava, senza dubbio, nella forza delle sue denunce, tanto implacabili quanto ossessive; ma questa stessa enfasi polemica, esibita con l'orgogliosa certezza di una credenziale divina, costituiva anche il suo punto debole, giacché poggiava sulla convinzione che essa potesse da sola svolgere una funzione taumaturgica.
Dalle pagine di Cordero non spira aria di simpatia nei confronti del personaggio. Anzi, la sua biografia dà spesso l'impressione di un'impietosa requisitoria, in cui una sterminata documentazione, più che un' interpretazione partecipe, fa da suggello al giudizio d'insieme. Ma proprio questa eccezionale padronanza delle fonti ha consentito all'autore di scrutare a fondo nelle pieghe più riposte (non è vero, per esempio, che Savonarola sfuggisse l'amicizia dei potenti come "un veleno pestifero" o che fosse completamente avulso da obliqui interessi settari e da faziosità di parte) e di compiere una vera e propria radiografia anche di quanto era stato appiccicato addosso a Savonarola, sgomberando così il campo dalle leggende messe in circolazione da tanta agiografia. Ciò nonostante, rimane in piedi il fascino controverso del personaggio, quella sua singolare capacità di destare, oggi come in passato, reazioni duplici e ambivalenti: da un lato, l' apprezzamento di una testimonianza di fede religiosa e di rigore etico sorretta da una forte ispirazione di perfezione cristiana; dall' altro, l' avversione nei confronti di un utopismo millenarista pervaso da un cupo sentimento apocalittico.

“la Repubblica” 25 marzo 1986

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