Il ricordo intenso di un regista, di un comunista, di un grand’uomo. Ne è autore un giornalista di spettacolo che gli fece da assistente e gli fu molto vicino negli ultimi anni per il progetto (non realizzato) di un libro-intervista. Colonna è autore di un bel volume su Luigi Tenco e di un sapido catechismo anticlericale. (S.L.L.)
Un giorno dei tanti accompagnai Mario in farmacia, prima di fare i soliti due passi. Camminava a scatti, con le movenze proprie di una marionetta retta da fili, a causa delle fratture multiple riportate anni prima in un rovinoso incidente d'auto e in quello domestico occorso successivamente. Attraversando via dei Serpenti all'improvviso sopraggiunse una macchina a velocità sostenuta ed io mi parai a sua difesa gridandogli di fare attenzione. Non aveva realizzato subito il pericolo incombente o forse pensò che stessi gridando per altro e mi chiese che cosa stesse succedendo. Alla mia risposta quasi mi rimproverò: «E sai quanto me frega se m'accoppano, 'o sai quant'anni ciò?». E in farmacia continuò a guardarmi, sorridendo,come si guarda uno sprovveduto.
Ricordi di un altro giorno. Lo conoscevo da oltre vent'anni e lo frequentavo assiduamente da almeno tre per via di una biografia alla quale si faceva fatica a dare un titolo. Spesso,a settimane fitte di incontri, ne succedevano altre senza mai sentirci. Per i miei impegni, per le sue partenze. E un giorno abbracciò con entusiasmo quasi infantile, raro in un uomo per le generali misurato, la mia proposta: «Una biografia per conversazioni continuamente interrotte». Ad incontri densi di dialogo fitto seguivano altri improntati a insofferenza allorché lo chiamavo per fissare l'incontro successivo: «Tu m'enteroghi sempre come 'noracolo ma sai tutto de me, che cerchi ancora?».
Apprezzava molto la puntualità: detestava il ritardo come l'anticipo. Quando ha fatto il salto, al di là
del dolore,non ho provato meraviglia. Me l'aveva detto chiaramente, quando affrontammo il tema della extrema aetas, che l'avrebbe fatto se si fosse trovato nella condizione di dipendere dagli altri. Sei vecchio, mimava, e allora tutti ti dicono di metterti seduto, mettiti seduto che ci pensiamo noi, e ti portano la tisana, e poi il brodino, e tu ci muori in quella poltrona. Se devo vivere attaccato alle flebo, ripeteva, con una mano caritatevole che ti pulisce il culo, allora il suicidio diventa un'opzione ragionevole.
E invece quanta gente blatera senza sapere. «Era stato lasciato solo dai suoi amici, abbandonato e disperato» squittisce la Binetti e le fa eco con più misura Eugenia Roccella: «Noi non possiamo sapere il grado di disperazione che lo ha spinto ad uccidersi». Se, con un po' più di umiltà, queste persone si fossero prese la briga di scandagliare la quotidianità di Mario, si sarebbero (forse) rese conto di quanto fosse amato, e circondato di premure e di attenzioni. Non ho mai conosciuto, soprattutto a quell'età, una persona così ricca di amicizie e di rapporti sociali.
Mario non conosceva disperazione, ed il salto è stato la conseguenza di una riflessione lucida. E comparare poi il suo gesto con quello del padre, pensare che quello sia stato in qualche modo propedeutico al suo è da imbecilli. Tomaso, giornalista, scrittore, sceneggiatore, regista, uomo geniale, era stato costretto all'inazione dalla canaglia fascista che gli impedì di continuare a scrivere, a lavorare, a vivere. Tutt'altra storia.
Mario era un uomo allegro, ilare, ironico. Quando gli dicevo che Manuel De Oliveira aveva un vero
e proprio tariffario per le interviste (gratis comunque ogni chiacchierata al di sotto dei cinque minuti...), lui cominciava a guardarmi in tralice, appena sorrideva e poi - lo aspettavo - diceva che con me sarebbe diventato miliardario. Un giorno lo convinsi a farsi fotografare, per la copertina del libro, travestito da Buster Keaton, il suo attore preferito. In fondo sarebbe bastato un cappello adeguato, un soprabito sovrammisura, la benda da ciechi e il gioco era fatto. No, no, si accalorava, bisogna fare le cose per bene. Vai da Tosi, lui è uno bravo, gli spieghi che ci serve e poi ci pensa lui. E allora, dopo alcuni abboccamenti falliti, incontrai Tosi al Centro Sperimentale: disse che si sarebbe messo subito al lavoro. Quando ci rincontrammo per fare il punto, Piero Tosi sembrava contrariato: Monicelli non ne sapeva niente, non aveva intenzione di travestirsi da nessuno. Quando sentii Mario la risposta fu laconica e quasi stizzita:«Ma che se mettemo a fa'...».
L'episodio della segreteria telefonica è esilarante. Mario si vantava di non possedere né un cellulare né un computer né il fax né la segreteria telefonica. Aveva solo il telefono e all'ora delle telefonate, solitamente le 19, il suo apparecchio era solitamente ingolfato. Si lamentava spesso di alcune telefonate ricorrenti (una sedicente poetessa che lo subissava da tempo con i suoi versi, uno studente universitario che gli chiedeva consiglio sull'indirizzo da prendere) che lo infastidivano. Gli consigliai allora di camuffare la voce, di renderla nei limiti del possibile metallica e di mimare il messaggio tipico di una segreteria. Lo scherzo riuscì e l'interlocutore (la poetessa) lasciò puntualmente il suo messaggio tra i lazzi di Mario.
Ero stato testimone dell'insorgere del male, anni fa, allorché cominciò ad interrompere all'improvviso le conversazioni per esigenze idrauliche. Ne era contrariato e un giorno mi si piazzò di fronte tormentando il labbro inferiore con la mano e interrogandomi risoluto: «Ma te, come pisci?».
Molta gente scrive e parla senza sapere. Penso, fra i tanti, a Ruggero Guarini che ha lamentato, testuale, l'assenza di «umiltà di riconoscere che siamo dipendenti da forze superiori a noi. E lo si vede nella sicurezza con cui scodellano giudizi così tronfi, fino ad arrivare a quel grottesco 'elogio' del suicidio del povero Monicelli. È un'idolatria demenziale quella che spinge a sdottoreggiare così», per poi avvitarsi in un icastico «credo che oggi non ci sia nulla di più rozzo e superstizioso del sentimento del fatuo, spensierato orgoglio che contraddistingue il laicismo italiano».
Mi dispiace, Mariù, hai sbagliato tutto e noi non abbiamo capito un cazzo. E allora, se me lo consenti (in fondo, sono o non sono stato uno dei tuoi tanti assistenti?), dirigo io: STOOOP!!! Tutto sbagliato Mario, torna su che ne facciamo un'altra.
Mi vien fatto di pensare a quelli che scrivono sempre del regista toscano perché «come si sa, Monicelli è nato a Viareggio». Mario era invece romano, nato al 56 di via della Croce, in un palazzetto d'epoca severo d'angolo con via del Corso. Al 56 la casa dove nacque, al 39 Cesaretto, all'81 Otello alla Concordia, quasi un destino. In una sorta di transfert schizofrenico Mario s'era imposto di far credere che Viareggio gli aveva dato i natali perché Viareggio costituiva, da sempre, la sua Madeleine, l'adolescenza spensierata, la passeggiata a mare percorsa una volta con un maialino al guinzaglio per attirare l'attenzione delle ragazze, la sua natura di dragueur.
Mi disse, più di una volta, che sulla sua tomba avrebbe voluto questo epitaffio: «Muoiono solo gli stronzi». Cercavo di spiegare questo a Ben Gazzara che rimane forse l'ultimo ricordo comune quando l'estate scorsa avevamo deciso di vederci da me, lui, Mario e Paolo Bonacelli. Erano tutti contenti della rimpatriata, poi Ben non trovò il tempo (trovò più rilassanti i bagni del Salento, ho saputo dopo) e Mario se ne andò pure lui al mare. Chiusa parentesi.
L'ho sentito cinque giorni prima che se ne andasse. Volevo portargli una foto del padre che avevo reperito in una biblioteca del Piemonte. Lui sorrise emi disse: «Ormai...» e fu il suo commiato.
Mario era un uomo elegante. L'immagine che perdura è quella di un uomo seduto in poltrona con le gambe accavallate, con ai piedi delle vezzose babbucce di feltro color bianco sporco, che sottolinea ogni concetto con il roteare nell'aria della mano destra e, ogniqualvolta un concetto va rimarcato, ecco le dita della mano aprirsi come l'inizio di un shangai-game. Non avrei mai pensato che l'assenza di una persona potesse essere così assordante.
È arduo, se non impossibile, sapere cosa passa nella mente di un uomo alla resa dei conti. Io mi picco di sapere a cosa pensasse Mario mentre scavalcava l'inferriata del balcone: forse a Manuel De Oliveira («morammazzato», come diceva qualche volta scherzevole) e, mentre volava, che non sarebbe più stato «l'ultimo regista morente». Quando mi capita di passare sotto casa sua, in via dei Serpenti, guardo in su e saluto con l'indice e il medio che partono dalla fronte verso il vuoto, come un militare, proprio come lui salutava me con la porta aperta in attesa che avessi percorso tutte le scale.
“alias” 3 settembre 2011
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