19.3.13

Parole di luogo. Biblioteca (Luciano Canfora)

Tra le “parole di luogo” pubblicate dal “manifesto” nell’agosto del 1989, come “lettura per l’estate”, spicca questa “voce”, curata dallo storico e antichista Luciano Canfora. (S.L.L.)

Ci sono romanzi nella cui vicenda la biblioteca è un luogo determinante. Essa è, ad esempio, la fonte della follia di Don Chisciotte; è il luogo dove Matilde visita impunemente Julien Sorel; è il luogo dove il «Gattopardo» illustra al suo interlocutore piemontese Chevalley la propria visione del mondo e il conseguente rifiuto del seggio senatorio; è nella sua biblioteca che Nicolaj Bolkonskij si congeda dal principe Andrea, e quel colloquio racchiude in germe gli sviluppi ulteriori della vicenda dello sfortunato principe.
Spesso viene fornita al lettore una descrizione di questo luogo: l'autore dà corpo, così, alla sua biblioteca ideale. Stendhal ne isola un dettaglio: la superba edizione completa, in ottanta volumi, delle opere di Voltaire, dinanzi alla quale Julien Sorel si commuove: «Pochi minuti dopo Julien si trovò solo, in una magnifica biblioteca: fu un momento delizioso. Per non farsi sorprendere dalla sua emozione, andò a rifugiarsi in un angolo buio; di là contemplò rapito i dorsi lucenti dei libri. «'Potrò leggerli tutti', si disse»; Julien si scuote subito dall'abbandono estatico in cui la vista dei libri lo ha messo e si mette al lavoro, a eseguire il lavoro di copia affidatogli dal suo padrone, il marchese de la Mole, nella cui casa è appena entrato e dove la sua vicenda giungerà alla catastrofe: «Finito il lavoro, Julien osò avvicinarsi ai libri: poco mancò che divenisse pazzo di gioia vedendo un'edizione completa di Voltaire. Corse ad aprire la porta dalla biblioteca per non farsi sorprendere. Poi si concesse il piacere di sfogliare ciascuno degli ottanta volumi. Magnificamente rilegati, erano il capolavoro del miglior artigiano di Londra. Sarebbe bastato assai meno per portare al colmo l'ammirazione di Julien».
Siamo al principio della seconda parte de Il Rosso e il Nero: l'ingresso in quella biblioteca è il momento di svolta. La biblioteca del marchese è luogo ambito, nel romanzo. Il giorno dopo Julien «trovò sistemato accanto a lui, in biblioteca, un giovane vestito con molta cura: ma il suo portamento era meschino ed egli sprizzava invidia da tutti i pori. «Entrò il marchese. - 'Che fate qui, Tanbeau?' chiese al nuovo venuto, in tono severo. - 'Io credevo...' ribatté il giovane con un sorriso untuoso. - 'No, signore, voi non credevate. E' stato un tentativo, ma poco felice'. - Il giovane Tanbeau si alzò furibondo e scomparve».
Cervantes si diverte, quando descrive la biblioteca di Don Chisciotte, a dar vita a una rassegna di scrittori; e vi include anche se stesso, cui destina un autoironico giudizio: «La Galatea di Miguel de Cervantes - disse il barbiere. -"Son molti anni che è mio grande amico quel Cervantes, e so che è più versato in rovesci che in versi. Il suo libro ha qualcosa di buono come immaginazione; promette molto e non conclude nulla; è necessario aspettare la seconda parte che egli annunzia [e che invece non fu mai stampata]; forse emendandosi otterrà l'indulgenza che ora come ora gli si nega».
Nel caso di Julien, la scelta di Voltaire come unico autore esplicitamente nominato a rappresentare la ricca biblioteca del marchese può essere spiegata in vari modi: lettura prediletta dello stesso Stendhal, oppure simbolo delle predilezioni intimamente laiche di un giovane allevato in seminario nei primi tempi della restaurazione; apertura mentale del marchese, nonostante i suoi modi insopportabilmente aristocratici.
Nel caso di Don Chisciotte il rapporto coi libri è più profondo: tutto parte da loro, è attraverso quel filtro immaginario che il cavaliere della Mancia guarda con occhio stralunato il reale. Caduto per terra e incapace di rialzarsi, appesantito e indolenzito, Don Chisciotte ha nei suoi libri la sua risorsa: «Vedendo dunque che proprio non ce la faceva a muoversi, stabilì di ricorrere al suo consueto rimedio, che era di pensare a qualche passo dei suoi libri; e la sua pazzia gli fece venire in mente quello di Baldovino e del Marchese di Mantova, quando Carlotto lo lasciò ferito sulla montagna, storiella nota ai bambini, non ignorata dai giovani, ed esaltata e persino creduta dai vecchi, ma con tutto ciò non più vera dei miracoli di Maometto. Quest'episodio gli parve che calzasse perfettamente con la situazione in cui si trovava e così, con segni di gran dolore, cominciò a rotolarsi per terra e a dire con flebile voce quello che diceva, a quanto dicono, il Luciano cavaliere ferito nel bosco: «Dove sei signora mia,/che non ti duole il mio mal? ...». E continuò in questo modo la romanza fino a quei versi che dicono 'O gran marchese di Mantova/mio zio e signore carnal!'. E volle la sorte che proprio quando arrivò a questo verso si trovasse a passare di lì un contadino del suo stesso paese e suo vicino, che se ne stava tornando dopo aver portato al mulino un carico di grano. Questi, vedendo un uomo steso in terra, gli si avvicinò e gli domandò chi era e che male avesse, che si lamentava con tanto affanno. Don Chisciotte credette senza dubbio che colui fosse il marchese di Mantova, suo zio, e così non gli rispose altrimenti che col continuare il suo romance, con cui lo metteva al corrente della sua disgrazia e degli amori del figlio dell'Imperatore con la sua sposa, tutto per filo e per segno». Notare come maliziosamente Cervantes dica senz'altro «il marchese di Mantova suo zio», ponendosi per un momento dalla parte della follia di Don Chisciotte, consistente appunto nella proiezione del suo mondo libresco sul reale (se stesso compreso). Il contadino lo riconosce, lo issa sulla giumenta e lo riporta verso casa. Ma, appunto, «pare che il diavolo si divertisse proprio a fargli venire in mente i racconti che si applicavano nei casi suoi, perché a questo punto, scordatosi di Baldovino, si ricordò del moro Abindarràez, quando il governatore di Antequera, Rodrigo de Narvàez, lo prese e lo mandò prigioniero alla sua terra».
Ricondotto a casa, Don Chisciotte è apparentemente lucido, anche se domanda: «si chiami, se è possibile, la maga Urganda, che curi ed esamini le mie ferite». La governante sbotta: «Ah lo vedete?», e conclude: «Siano maledetti e stramaledetti quei libri di cavalleria che l'hanno ridotto così». Dopo di che porta il barbiere ed il curato di sopra, nella biblioteca del suo padrone con il
proposito di tagliare il male alla radice: bruciare la biblioteca. Quando Don Chisciotte si desta, la sua prima cura è di correre dai suoi libri. Ma si scontra contro il drastico provvedimento dei suoi "salvatori" (barbiere, curato, nipote, governante), i quali non solo gli hanno bruciato i libri ma gli hanno fatto murare la stanza dove essi erano raccolti: «Don Chisciotte si alzò e la prima cosa che fece fu di andare a vedere i suoi libri, e non trovando più la stanza dove l'aveva lasciata, l'andava cercando di qua e di là. Giunto dove soleva esserci la porta, toccava con le mani, poi girava e rigirava gli occhi, per ogni dove, senza dir parola; ma alla fine, dopo un bel po' di tempo, domandò alla governante da che parte stava la stanza coi libri. La governante, che già sapeva quel che doveva rispondere, gli disse: - “Che stanza? Che cosa va trovando? Non c'è più né stanza né libri in questa casa, perché si è portato via ogni cosa il diavolo in persona».
La nipote tira in ballo un mago, e don Chisciotte si adatta a questo pensiero conformandolo subito al suo mondo mentale: «Si è vero - disse - è un mago incantatore mio gran nemico, perché sa che con l'andar del tempo dovrò venire a battaglia con un cavaliere che lui protegge». E così si acquieta. E medita freddamente la fuga e la attua. «Si provvide di camicie e di quant'altro potè, secondo il consiglio che gli aveva dato il locandiere e fatte tutte queste cose, senza che Sancio Panza si congedasse dalla moglie e dai figli, né don Chisciotte dalla sua governante e dalla nipote, non veduti da nessuno uscirono dal paese, una notte, nel corso della quale camminarono tanto che quando albeggiò considerarono ormai sicuri che non li avrebbero più trovati neanche se avessero cercato d'inseguirli». Una scena seria, tragica, narrata con piena adesione da Cerevantes. Nell'animo di ogni "pazzo di libri" è in agguato in un angolo del cervello, la fuga di Tolstoj.
La biblioteca di Don Chisciotte è una biblioteca «antica», una biblioteca cioè che rispecchia il suo lettore: una biblioteca di non molti libri, letti e riletti, che hanno formato il protagonista così com'è.
Ci sono casi limite. All'inizio del Settecento, Johann Albert Fabricius diede vita al primo, imponente, repertorio delle letterature classiche, semplicemente descrivendo i libri suoi, e chiamò le due serie Bibliotheca Graeca e Bibliotheca Latina. Per trovare qualcosa di simile bisogna risalire al primo libro della Storia Naturale di Plinio. Più spesso si tratta di un limitato numero di libri. Quando fu arrestato Danton, si procedette alla confisca, tra l'altro, dei suoi libri, l'inventario fu fatto alla presenza di due notai il 18 marzo del 1794. E' un documento istruttivo. Contro ogni aspettativa, il posto riservato ai classici è ristretto. Accanto ai grandi moderni (Montesquieu, Montaigne, Helvétius, Mably, Rousseau, Voltaire, Shakespeare, Cervantes ecc.), spazio notevole è riservato all'economia (Adam Smith) e alla storia moderna (la Storia d'America di Robertson, le Rivoluzioni d'Italia del Denina, la Storia d'Italia del Guicciardini). Accanto all'immancabile Histoire ancienne del Rollin campeggia, com'è ovvio, Plutarco, ma stranamente manca del tutto Cicerone, così caro ai tribuni della Convenzione (da Vergniaud a Desmoulins), mentre vi è, in italiano, la Biblioteca dell'eloquenza italiana.
Biblioteche di pochi libri erano state quelle dei colti ateniesi prima di Aristotele, o a Roma prima di Emilio Paolo. Il vecchio Catone si era confezionato lui stesso i libri strettamente necessari. Da vecchio ebbe tra mano estratti da Tucidide: forse un libro di quelli che Emilio Paolo aveva depredato alla corte di Macedonia dopo aver vinto Perseo a Pidna nel 168 a.C: «Romae primus librorum copiam advexit» dice di lui Isidoro di Siviglia nella sua enciclopedia totale. Prima, libri a Roma ce n'è pochi. I signori non si distinguono ancora in quanto possessori di biblioteche private. Questo diventerà simbolo di rango, ma anche di modernità, nel secolo seguente. Silla, Lucullo: grandi conquistatori e proprietari di libri. La biblioteca privata di Lucullo - come la descrive Plutarco - sembra modellata su quella di Alessandria: scaffali, portico, passeggiata, salette per gli ospiti. Secondo Isidoro, quei libri venivano dalla «pontica preda»: Lucullo li aveva rubati allo sconfitto Mitridate. Ospitarsi nelle rispettive biblioteche è la maggior squisitezza tra gran signori e loro amici. Cicerone ricorda nel terzo libro del De finibus una delle sue visite alla splendida biblioteca di Lucullo, quando aveva trovato, in una delle salette, il rigido Catone (il futuro suicida) immerso nella lettura di rotoli di filosofi stoici. Una volta, nell'aprile del '55, manda un biglietto ad Attico semplicemente per dirgli della sua felicità di trovarsi in quel momento nella biblioteca di Fausto (il figlio di Siila). Un'altra volta scrive a Varrone - il dotto universale cui Cesare aveva chiesto di fondare a Roma delle biblioteche pubbliche - poche righe per invitarlo a Tuscolo nella sua villa, in biblioteca; altrimenti verrà lui da Varrone: «se hai una biblioteca col giardino, hai tutto» (Familiari, X,4). Ci si visita per passare qualche ora in biblioteca con l'amico, in silenzio, ciascuno intento alla propria lettura: una visita silenziosa che Cicerone rievoca, rivolgendosi al giurista Trebazio - al principio dei Topica: «Quando eri da me in villa a Tuscolo e ciascuno di noi, per proprio conto, in biblioteca scorreva i libri che più gli piacevano...». Una scena da Eden.
Ma possono sopraggiungere tempeste politiche ed anche i libri vanno in fumo. Varrone, che era stato proscritto nel terribile 43, ma si era salvato, raccontava di non riuscire più a ricostruire la collezione completa delle sue opere, da quando «al tempo delle proscrizioni, la sua biblioteca era stata disfatta» (Gellio, m, 10). E si capisce che anche dietro i libri c'è il lavoro degli schiavi. Non sempre dediti al padrone, come il fido segretario e copista Tirano. In una lettera del 46, Cicerone racconta a Publio Sulpicio che un suo schiavo greco di nome Dionigi - il quale aveva curato molto la biblioteca - fatto esperto del valore di quel ben di dio, era fuggito portandosi via fior da fiore; ma era stato avvisato - precisa Cicerone - in una città dell'Illirico, Narona: onde Cicerone si rivolge a Sulpicio, governatore di quella provincia, perché acciuffi il fuggiasco: «is est in provincia tua»! (Familiari, XII, 77).
Coi nuovi ricchi, negli anni del principato, si afferma la biblioteca come puro oggetto di prestigio. Petronio nel Satyricon fa dire al suo eroe parvenu: «Ho ben tre biblioteche, una greca e una latina» (senza pensare che la terza fosse ebraica, l'incongruenza mirerà a sottolineare la indegnità culturale del parlante). Negli stessi anni Seneca inveisce contro le case dei ricchi, colme di libri mai letti: la biblioteca è ornamento obbligatorio, come il bagno o le terme. Nella celebre tirata, Seneca rivendica l'ideale dei pochi libri, letti davvero a fondo: «affidati a pochi autori, non peregrinare tra tanti» (Tranquillità dell'anima, 9), e mostra indifferenza verso i quarantamila rotoli bruciati ad Alessandria di cui leggeva in Tito Livio: «Erano stati confezionati - dice - per essere ostentati, non per lo studio».
C'è gusto del paradosso in questa rivalutazione senechiana della piccola raccolta privata, già propria dei grandi ate¬niesi. Platone, Anassagora, ci appaiono infatti, dalle testimonianze dei contemporanei, uomini di pochi libri. Alla maniera di quell'Eutidemo, che viene intimorito da Socrate nei Memorabili di Senofonte per essersi procurato «tutto Omero». Omero, all'epoca, è - da solo - una «biblioteca»: così l'Antico Testamento al tempo di Edra (che lo riscrisse perché lo sapeva tutto a memoria); così anche la collezione cavalleresca di Don Chisciotte, che, col passare degli anni, gli aveva infiammato la testa.

“il manifesto”, 10 agosto 1989

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