17.3.13

Bello, impossibile e sconosciuto. La leggenda di Tommaso Landolfi (Giovanni Raboni)

Su un rotocalco a grande diffusione, non già su una rivista specializzata, con l’intenzione non dichiarata ma evidente di toccare il pubblico dei “lettori potenziali” di Landolfi, il poeta Giovanni Raboni scrisse nel lontano 1987 questo articolo, per la verità un breve saggio, che cercava di collocare lo scrittore di Rien va nel posto di primissima fila che merita nel nostro Novecento letterario. E tuttavia, nonostante la riedizione per Adelphi di diverse sue opere, la “scoperta” di Landolfi non è ancora avvenuta e la sua prosa bellissima, la sua inventiva inesauribile, la sua capacità di soffrire e conoscere restano culto esclusivo di un piccolo club di appassionati.
“Posto” qui le belle pagine ermeneutiche e critiche di Raboni con l’esplicita speranza di reclutare qualche nuovo adepto per il club, sperando che un giorno o l’altro l’opera ricca e complessa dello scrittore frusinate possa uscire dal ghetto ove il sistema letterario italiano l’ha rinchiusa. (S.L.L.)
Tommaso Landolfi con uccello
Con un paio d'anni d'anticipo sul decennale della morte dello scrittore, Rizzoli manda in libreria Il gioco della torre, una raccolta di sessanta racconti di Tommaso Landolfi pubblicati nel corso degli anni Sessanta nella terza pagina del “Corriere della Sera” e fin qui inediti in volume.
Veramente, a voler essere pignoli, si potrebbe osservare che uno dei racconti, Un viaggio a Milano, era stato inserito dall'autore, con diverso titolo (Milano non esiste), fra i  tredici testi che compongono A caso (1975); e ci si potrebbe anche chiedere, non del tutto oziosamente, se Landolfi avrebbe optato, qui, per la dizione «racconti» e non invece per quella, da lui privilegiata in occasione di due raccolte consimili (Un paniere di chiocciole, 1968, o Del meno, 1977), di «elzeviri».
Ma si tratta, è chiaro, di questioni di dettaglio; e se non ho rinunciato ad accennarvi è stato soprattutto per ribadire anche in questo modo indiretto - cioè con un sommesso richiamo a un po' di filologia - il rispetto, l'ammirazione dovuti a uno scrittore fra i maggiori di questo secolo.
Per il resto, dell'uscita del volume non c'è che da rallegrarsi; innanzitutto per il piacere di leggere e rileggere non poche pagine tipicamente landolfiane, cioè mirabili per leggerezza euforica e dolorosa; e poi perché è forse lecito cogliere in esse il segnale, o perlomeno l'auspicio, della ripresa di un ambizioso e meritorio programma editoriale che, interrotto da qualche anno, pareva accantonato se non addirittura abbandonato: la ristampa, sempre presso Rizzoli, di tutte le opere di Landolfi, oggi in larga parte introvabili.
Spero che sarà così; e che venga in questo modo a cancellarsi l'effetto curiosamente negativo provocato dalla comparsa, nel 1982, del volume antologico Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, a cura, e con una nota critica, di Italo Calvino. Limitativa e implicitamente liquidatoria, la scelta di Calvino presentava infatti un Landolfi rimpicciolito e «specializzato», sottratto al continuo, inarrestabile pendolarismo fra immaginazione o aforisma, costruzione e decostruzione, splendore della forma e oscurità della materia, oggettività narrativa e nichilismo diaristico, nel quale consistono il modo d'essere, il senso, la ragione di quella che Guido Piovene ha definito la «contagiosa potenza» della sua scrittura.
E con questo siamo già al centro del problema o, se si preferisce, del «caso» Landolfi; o anche, forse, del complesso di motivi per il quale questo straordinario autore non ha mai ottenuto, da parte del pubblico, che una piccola parte dell'attenzione, dell’ammirazione, dell'amore che gli competono.
Non parlo, è chiaro, del grande pubblico dei bestseller commerciali: non si può pretendere che chi ha il palato alla prosa, che ne so, di Alberto Bevilacqua o di Nantas Salvataggio sia in grado di penetrare e apprezzare quella di Landolfi; ma del pubblico comunque non esiguo che negli scorsi decenni ha pur decretato il successo, immediato o postumo, di scrittori certo non facili, vuoi per raffinata sofisticatezza vuoi per complessità e spessore espressivi, come Italo Calvino o Alberto Savinio o Carlo Emilio Gadda. È questo il pubblico che Landolfi - più grande dei primi due, e non meno grande del terzo - avrebbe potuto, avrebbe dovuto conquistare. Ma ciò non è avvenuto, né prima né dopo la sua morte.
Come mai? Quali sono le possibili spiegazioni di questo, diciamo così, non avvenuto contatto fra Landolfi e i suoi lettori potenziali? Le risposte che vorrei azzardare sono due, in verità più complementari che alternative fra loro. La prima ha a che vedere con la natura - eccentrica e aristocratica, forse un po' sprezzante, certamente ritrosa - del personaggio Landolfi. Dopo aver frequentato in gioventù (era nato nel 1908 a Pico, in provincia di Frosinone) gli ambienti della fervida avanguardia fiorentina degli anni Trenta, Landolfi s'era poi via via sempre più appartato e isolato, non concedendosi più, o concedendosi solo con evidente malavoglia, ai riti e alle convenienze della società letteraria. Da dandy affascinante e un po' tenebroso («personaggio notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore e inveterato giocatore», secondo la suggestiva descrizione di Gianfranco Contini), Landolfi si era insomma trasformato, a poco a poco, in una sorta di misantropo o eremita sui generis: uno che «non stava al gioco» - il gioco dei favori reciproci, delle conventicole e delle ipocrisie - nella stessa misura in cui, invece, amava il gioco vero, il gioco d'azzardo, soprattutto la roulette (al punto che, negli ultimi anni, era andato a vivere sulla Riviera ligure per essere vicino al casinò di Sanremo...).
Insomma, Landolfi non aveva, non voleva avere, nulla da dare ai suoi colleghi; e si sa come, nella società letteraria (italiana e, suppongo, non soltanto italiana), chi non dia, non conceda, non prometta abbia, in genere, ben poco da aspettarsi. Ciononostante, l'eccezionale qualità del lavoro di Landolfi fu riconosciuta, e assai precocemente, da alcuni dei migliori ingegni della critica a lui contemporanea (basti pensare, appunto in ambito fiorentino, a Carlo Bo e Oreste Macrì). Dirò di più: intorno a Landolfi nacque quasi subito - cioè già all'altezza dei suoi primi libri: Dialogo dei massimi sistemi (1937), La pietra lunare (1939)... - una sorta di leggenda critica: la leggenda di un talento strepitoso, tale che avrebbe potuto consentirgli di «cacciar di nido» tutti quanti, e che tuttavia...
Ecco: io credo che proprio in questa leggenda - in questo «tuttavia» - sia da cercare la seconda e più decisiva ragione del mancato contatto, almeno fino ad ora, fra Landolfi e i lettori potenziali e predestinati, i lettori d'elezione della sua opera. Dal «tuttavia», esplicitato o sottinteso che fosse, scaturiva infatti l'immagine di uno scrittore portato a disperdere, a dissipare i propri doni, a non cogliere appieno i frutti della propria genialità; di uno scrittore sempre in procinto di dare un capolavoro che continuamente veniva rinviato; di uno scrittore, per così dire, sempre inattuale e inattuato, sempre «futuro»...
Immagine suggestiva, forse; e non è escluso che lo stesso Landolfi ne sia stato in certa misura divertito e persino lusingato; ma immagine, anche, profondamente equivoca e fuorviante, segno di mancata percezione o di inadeguata valutazione di quella fondamentale bipolarità, di quell'essenziale «pendolarismo» cui ho fatto cenno all'inizio. Lungi dal rappresentare un'incertezza, una debolezza, una scelta ancora da fare, la bipolarità landolfiana costituisce invece la scelta vera e geniale compiuta dallo scrittore sin dalle sue prime prove e poi perfezionata, arricchita, portata a conseguenze sempre più radicali e profonde nel corso di una carriera tutt'altro che dispersiva e dissipatoria, anzi mirabilmente concentrata, coerente e laboriosa.
Tale scelta, come si sarà capito, consisteva proprio nel non scegliere: cioè nel lasciare la più ampia e libera oscillazione, la più vasta e imprevedibile (ma, al tempo stesso, rigorosamente controllata e sorvegliata) possibilità di intreccio, di incontro, di integrazione reciproci ai due impulsi simmetrici dell'ispirazione landolfiana: l'impulso del narratore «romantico-esistenziale», capace di escogitare e realizzare impeccabili e inquietanti macchinazioni fantastiche, psicologiche e allegoriche, e l'impulso alla «contestazione stilistica», alla meditazione autocritica, all'esercizio della scrittura come radicale combustione o dissolvimento, come dimostrazione dell'irrealtà della realtà e persino -paradosso estremo e vertiginoso - «dell'irrealtà dell'irrealtà» (le definizioni virgolettate sono tratte dall'eccellente saggio di Geno Pampaloni compreso nell'ultimo volume - Il Novecento - della Storia della letteratura italiana, diretta per Garzanti da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno: di gran lunga, a mio avviso, le pagine critiche più illuminanti su Landolfi).
Ora, la leggenda di un Landolfi perennemente futuro, di un Landolfi il cui immenso talento si consumava in una sorta di infinita aporia espressiva, ha finito probabilmente con l'innescare la diffidenza dei lettori, inducendoli ad aspettare sempre il prossimo libro dello scrittore, il famoso capolavoro che non veniva mai... E invece, nel frattempo, i capolavori venivano - anzi, erano già venuti; e altri ne sarebbero venuti, nell'isolamento o quasi, ormai, nella disattenzione generale. Dai racconti di La spada (1942) a quelli di Ombre (1954), dal romanzo breve Le due zitelle (1946) ai Tre racconti (tra cui lo splendido La muta) del 1964, dagli straordinari diari o zibaldoni o confessioni Rien va (1963) e Des mois (1967) sino ai dialoghi spettrali, alle ceneri incandescenti, alle divagazioni noncuranti e testamentarie delle ultime (e solo apparentemente occasionali) raccolte, le due anime di Landolfi - l'anima del «raccontatore» e quella del «nichilista», l'anima del «cultore del nulla» e quella del «poeta della realtà», per citare ancora Pampaloni - erano venute componendo, non già una serie di capolavori mancati o inesplosi, bensì - tassello dopo tassello, trasgressione dopo trasgressione - un monumento caleidoscopico e abbagliante, giocoso e mortuario, inafferrabile e irrecusabile, che ha ben pochi uguali nella narrativa italiana di questo secolo e che fa anzi di lui - di questo tradizionalista innovatore, di questo «informale con figure» - uno dei protagonisti, in assoluto, della ricerca letteraria del Novecento.
Naturalmente, niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza l'infinita cultura di Landolfi, il quale scriveva, per così dire, al cospetto di tutti i grandi scrittori del passato: dai «suoi» russi (il Gogol e il Puskin che stupendamente tradusse, ma anche e soprattutto Dostoevskij, anche Cechov, anche Leskov) a Poe, a Hoffmann, a Nerval, a Kafka... e davvero non si finirebbe più di elencare nomi, sino a convocare - l'osservazione è di Giacomo Debenedetti - l'intero «almanacco di Gotha della poesia e del romanzo». E, a maggior ragione, non sarebbe stato possibile senza le risorse inesauribili di una prosa di infaticabile bellezza - a mio modo di sentire, la più bella prosa che si sia scritta in Italia dopo il D'Annunzio delle Faville del maglio -, capace di amalgamare in un unico, stupefacente, imperturbabile impasto timbrico il massimo della spontaneità e il massimo dell'artificio, parole di tutti i giorni o parole preziose, arcaiche, desuete sino all'inverosimiglianza.
Calvino ha parlato, per questa prosa al tempo stesso follemente composita e rigorosamente, eroicamente unitaria, di «una voce che pare faccia il verso a un'altra voce», e di una scrittura che «solo fingendosi parodia d'un'altra scrittura (...) riesce a esser diretta e spontanea e fedele a se stessa». Con assai maggiore finezza, e giungendo ben più vicino al cuore del «mistero» Landolfi (non solo, si badi, al mistero del suo stile, ma anche a quello della sua segreta, profonda, disperata umanità), Debenedetti aveva parlato, parecchi anni prima, di «uno che riesce a spacciare la sua voce naturale per un falsetto».

L’EUROPEO / 7 MARZO 1987

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