25.3.13

Il ritorno del Marino. Adone nel regno di Eros (Pietro Citati)

Rubens - Venere e Adone
Pietro Citati, nel lontano 1976, in un articolo a commento di una riedizione commentata dell’Adone, l’ampio poema di Giovan Battista Marino, si cimentò nella specialità della “stroncatura storica”. Il testo, di cui qui propongo un ampio stralcio, contiene alcune esagerazioni e forzature polemiche caratteristiche del genere e, fazioso come dev’essere, tace alcune bellezze che nel poema risiedono. Chi ha qualche frequentazione, anche occasionale, dell’opera del secentesco Cavaliere, deve tuttavia ammettere che Citati ha qualche buona ragione dalla sua parte. (S.L.L) 
Un'immagine di Giovan Battista Marino
Il 1976 sembra essere stato l'anno di Giovan Battista Marino. Nello spazio di pochi mesi, abbiamo avuto la scelta dell'Adone curata da G. G. Ferrero (Einaudi-Ricciardi) : la pubblicazione dei primi undici canti a cura di Marzio Pieri (Laterza) ; e soprattutto l'edizione monumentale del poema a cura del più colto tra i nostri italianisti, padre Giovanni Pozzi (Mondadori, due volumi, lire 28.000). Dopo tre secoli di dimenticanza e di disprezzo, il Marino ha dunque ritrovato i lettori entusiasti che lo festeggiarono in vita? E la letteratura italiana possiede finalmente il suo Gongora, il suo Donne, come suggerisce padre Pozzi?
Quando leggiamo l'Adone, ci sembra che la storia della letteratura sia conclusa: secoli di letteratura greca, latina e italiana precipitano qui, come in una splendida tomba. In questa tomba, Marino viveva felice e solitario: gli pareva di esserne l'unico signore, custode e inquilino: tutti i tesori della letteratura del passato stavano a sua disposizione; ed egli se ne appropriava, ora giocando allusivamente col testo originario ora nascondendo il proprio furto. Traduceva: da Ovidio e da Luciano, da Claudiano e da Nonno, da Dante e da Petrarca: qualcuno l'accusava di plagio; ma qualsiasi testo trascrivesse, aveva il suo timbro, la sua musica, il suo tono. Chiuso nella tomba popolata di libri, possedeva un segreto. La sua mente gelida e ambigua era ugualmente vicina e lontana a tutti gli argomenti.
Abbiamo l'impressione che egli potesse dire ogni cosa in poesia, che potesse fare versi su qualsiasi tema, con grande maestria, ma al tempo stesso con una specie di tiepida indifferenza per i propri motivi. Sebbene la letteratura costituisse per lui l'unica ragione di vita, non lo sorprendiamo mai a divertirsi con le parole, a giocare perdutamente con i suoni e i ritmi, né la passione o la furia sbilanciavano mai il suo rigore'' di artigiano. Forse, dietro l'indifferenza e il torpore, si nascondeva un vuoto illimitato: una fredda, tenebrosa, ghiacciata cavità, che egli si sforzava di colmare con l’ininterrotto melodismo dei suoi versi. Questo, probabilmente, fu il vero contrassegno del suo genio.
Tutto il poema parla di Venere e di Cupido, e pretende di introdurci nel regno sfrenato, crudele e tremendo, dove trionfa senza rivali la forza di Eros. Ma chi presta fede a queste parole, verrà subito deluso. C'è più suggestione sensuale in un'ottava del Tasso, che nei 42.000 versi dell'Adone
I due  protagonisti sono quasi asessuati: Adone è un androgino femmineo e timoroso, e Venere, invece di appendersi toute entière alla propria preda, la protegge con il suo vago affetto materno. La forza di Eros viene illanguidita,  prolungata, mitigata ed attenuata, fino a trasformarsi in una mollezza  onniavvolgente…
Come tanti scrittori barocchi, Marino cerca di rivaleggiare con le arti figurative. Per lui, la vista è il primo dei sensi; e vorrebbe rinchiudere nei suoi versi dei quadri variopinti o delle statue teatrali, che cantino e suonino, simili a degli spettacolari prodigi secenteschi. Ci attenderemmo dunque di leggere un poema eminentemente visivo. Ma non vediamo mai quello che Marino rappresenta: non abbiamo mai il ricordo di qualcosa posseduto cogli occhi; le figure umane non hanno corpo, i paesaggi non hanno profondità, i quadri non hanno linee precise, le sculture non hanno rilievo. Scorgiamo soltanto delle ombre, riflesse, perdute e smarrite in uno specchio, che nessuna   mano   sposta… 
Qualcuno potrebbe credere che l'immenso poema lasci nella nostra mente quella trionfale gioia del   grandioso e del turgido che suscitano in noi tante tele e affreschi del Seicento Niente è più lontano dal vero: leggendo l’Adone non abbiamo il senso dell'insieme. Siamo perduti, ogni volta, in un particolare mostruosamente ingrandito, dilatato e rallentato; e, per 42.000 versi, da un particolare passiamo ad un altro, con una lentezza egualmente mostruosa, senza che mai ci colga un'avventura, una sorpresa, un caso, senza che mai ci assalga la gioia del movimenti. Procediamo in questo mare, che subito si rinchiude sul nostro capo, senza lasciar intravedere la fine.
Quando abbiamo finito di leggere l'ultima ottava, siamo sopraffatti da un fascino complicato. Non vorrei escludere che sia il fascino mortale della noia. Ma la noia che ci segue, come la più fedele   compagna di viaggio, durante  la lettura dell'Adone, ha una qualità strana e suggestiva. La mostruosa lentezza emana una specie di fascino ipnotico, una stregoneria mite e stupefacente.
Mentre altri scrittori tentano di eccitarci con la velocità del ritmo, Marino mira piuttosto a distendere un blando sopore sopra le nostre ciglia. E' probabile che anche quest'effetto fosse calcolato…

“Corriere della sera”, 8 marzo 1977

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