31.3.13

Quattro domande. Una autointervista di Carlo Emilo Gadda

Carlo Emilio Gadda in una caricatura di Vauro
Richiesto di scrivere in poche ri­ghe un giudizio critico sulla sua opera complessiva, che cosa di­rebbe?
Il mio lavoro letterario, disturbato per circa 16 anni su 35 da altri impegni, e da circostanze private e cataclismi pubblici esterni alla mia responsabili­tà nonché alla mia possibilità di porvi in alcun modo riparo, ha derivato da­gli urti, dalle disavventure, dalla guer­re vittoriose o catastrofiche, il caratte­re discontinuo e l'apparenza e forse la tonalità del frammento. A parte ciò, il mio scrivere palesa, purtroppo, una insofferenza delle formulazioni espressive che mi sono via via ritrova­to nelle camere timpaniche e la co­stante ricerca d'una espressione a mio giudizio adeguata ed esatta: sciolta, comunque, dagli ancoraggi di ogni pe­tizione di principio. Questo tentativo, riuscito o no, comportava infrazione degli obblighi di contegno [behaviour), intendo di contegno espressi­vo ereditato dal secolo perbene. Com­portava qualche inosservanza dei riti di compostezza un po' uggiosa, qual­che pallida elongazione dal filo a piombo della «normalità» testuale, della tradizione e dell'urto, più o me­no pedestre, della regola grigia. Scarsa venerazione, in me, per una tematica e per un frasario di accatto. Scarso de­siderio di esibire tutto un sistema di «buoni sentimenti», cioè d'infiorescenza e di «normali» pustole che m avrebbero condotto a salvezza: di ottenere alla mia anima il diploma di «anima bella». Ahi!, la beauté de l’ âme mi ha sempre sedotto, purché istallata negli altri. Tutto sommato, non credo di essere un cannibale. Mi dolgo della incriminazione di «baroccheria». Alcune pagine extravaganti, ne convengo: alcun eccesso derisorio, di cui chiedo perdono a Dio, e alla patria: qualche gioco di parole (c'est mon alcool à möi): assente, comunque, il sci e sci e sci e sci del Pascoli così mal traducibile in francese. Mi dolgo d'essere accusato di barocchismo. Ci sono due sonetti dello Shakespeare, n. 135 e 136, alla dark lady, molto giocati sulle parole (come sempre) e dunque barocchi (come tutti gli altri) ove il nome Will accede 12 + 6=18 volte, nei vari significati che esso può ricevere in lingua inglese. I traduttori italiani tradussero il detto sostantivo ogni volta, a fronte dei significati dicevoli: e lasciarono will; cioè non tradussero, a fronte del significato disdicevole. Bene operarono. Poiché la censura non barocca gli avrebbe sequestrato il barocchissimo Guglielmo, thy Will.

Da poco si è chiuso mezzo secolo. Tra mezzo secolo quali narratori si leggeranno fra coloro che hanno lavorato in questo testé trascorso?
L'arte profetica non è la mia. Troppo mi spiacerebbe d'imbrattare il futuro con una erogazione responsale che si avverasse «a l'incontrari». Infiniti romanzieri, e più d'uno interessante, nel mezzo secolo testé decorso: grande varietà di temi e di atteggiamenti narrativi. Molti, anche, gli inutili. Se le scuole dove s'impara a leggere e magari a intendere ciò che si legge, se gli studi e il midollo spinale della gente funzioneranno ancora, credo che i maggiori nomi delle vetrine 1900-1950 saranno in qualche modo «presenti» nel 2000, et ultra.

I critici le sono stati utili qualche volta? L'hanno aiutata a capirsi meglio e a lavorare meglio? Così com'è fatta oggi la critica è utile a un narratore?
«Sarebbero» stati utili, se avessi trova-to in me stesso l'eroica virtù di dargli ascolto. Mi hanno comunque, e pressoché sempre, confortato al lavoro. La loro attenzione, la misericorde gentilezza del loro spirito, il «via!» così cordialmente espressomi allo starting hanno tonificato la mia speranza (un po' dubbiosa), la mia morosa diligenza. Devo, a molti, un grazie sincero: riconosco in alcuni, quella fede, quel particolare senso di fraternità che diviene, alla fin fine, collaborazione morale. La critica utile oggi, come sempre, è quella che comprende, che definisce e colloca uno scrittore: che ne ha pietà, nel significato più proprio del termine. Meno utile e direi totalmente inutile quella che discende da petizione di principio: che appende al suo chiodo il cartellone-paradigma, nella parete della scuola o del carcere, e dice: «Ve', ve'! Devi rifar da capo! Niente albicocche stasera! Ba-ba e non ba-bu». I Promessi Sposi riveduti e corretti: da un pronipote di quell'Ambrogio Fusella, Spadaro. E' un'idea: in cui non credo. Il lavoro, bello o brutto che sia, non è l'approssimazione maggiore o minore a un preesistente paradigma: salvo che per i pappagalli, o gli epigoni, i seguaci di bottega: è invenzione e costruzione, se pur lenta, sgraziata, infelice, che bisogna strapparsi dall'anima. Quando la critica si fonda e opera sulla base delle «vigenti disposizioni di legge», legge letteraria intendo, cioè sulla o sulle poetiche, sulle idee fisse che al momento imperversano, quella critica, no, non è fatta per mio soccorso. L'incriminarmi perché non appartengo e una scuola, è un condannarmi a tanti anni di galera perché non sono biondo.
Nonostante il romanzo tradizionale non possa essere considerato di gran moda, ogni anno escono decine e decine di romanzi. Si dice però che essi non siano veri romanzi: perché non hanno la misura tradizionale, non si servono di un intreccio, e non si basano sulla creazione di personaggi.

Come giudica lei questa situazione? Legge molti romanzi?
Quali le interessano? Leggo, purtroppo, ben pochi romanzi, affaticato dal mio stesso gribouillage: direi che un determinato genere letterario può, come una susina, pervenire a maturazione, indi a stanchezza. Il «romanzo» non vive in un tempo assoluto, in una regione astratta dello spirito: vive nella storia degli uomini (e delle donne), vive nel mutevole costume. Il «genere letterario» si modifica, si evolve, approda a quella particolare forma del suo non essere, che è la parodia. Il Furioso è parodia del «genere». Il grande lavoro di Balzac e quello di Tolstoi sono «genere». In altri l'infarto moralistico o saggistico è tale, per cui si deve dire che la stessa proposizione critica è divenuta personaggio; e altrettanto una frase musicale, o un dipinto. Il magico riapparire della «petite phrase» di Vinteuil nella dolorosa attesa di Carlo Swann, può equivalere il riapparire di Laura nel sonetto «Levommi, il mio pensier, in parte ov'era - Quella...»: equivale certamente lo squillare e l'irrompere inatteso della Marsigliese nel mio stupore appassionato di bimbo, in via Principe Umberto, per il Presidente Loubet.

da "il manifesto", 12 novembre 1993, anticipazione dal volume Per favore lasciatemi nell'ombra, Adelphi, 1993.

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