3.11.16

La Sicilia dei Greci. Gela (Franco La Cecla)

Ritrovare l'Italia vuole essere, per dirlo con le parole della società editrice, “Il Mulino” di Bologna, “una collana di itinerari d'autore tra storia e cultura”. Tra gli ultimi titoli c'è un Andare per la Sicilia dei Greci, affidato ad un antropologo dai molti interessi, Franco La Cecla, che ha prodotto ricerche assai apprezzate sull'architettura (più precisamente “contro l'architettura”), su Illich, sull'alimentazione. Il libro sulla Sicilia dei Greci, resoconto di un viaggio e di una sistematica ricognizione, è davvero da leggere e aiuta a guardare con occhi nuovi anche chi a torto pensava che da certi luoghi avesse tratto tutte le possibili rivelazioni ed emozioni. Posto qui uno stralcio dalle pagine dedicate a Gela. (S.L.L.)
Gela, Mura di Timoleonte

Eschilo, figlio di Euforione, copre questo
Sepolcro. E morto a Gela feconda di messi.
Il suo strenuo coraggio possono dichiarare il bosco
Di Maratona e il Medo chiomato che ne fece esperienza.
(Epitaffio sul sepolcro di Eschilo, 456 a.C.)

Quando ieri sono arrivato a Gela mi ha accolto la luce abbacinante del sole di maggio e ho ritrovato le dune che non mi avevano mai abbandonato da Kamarina. Dune, dune aggressive e una costa a trabocchetto che in antichità pullulava di pozze mefitiche, paludi - e i Greci ne bonificarono parecchie - e grandi spiagge esauste, che appena spira il vento si mangiano i villini dei locali, ne grattano le persiane, ne sberciano i muri, ne inghiottono le fondamenta. Una terra di bradisismi che sono il timore costante del direttore del museo di Kamarina che si vede sottrarre dal mare pezzi della città antica.
Gela è allucinante, una Detroit mediterranea in cui l'unica colonna rimasta dell'acropoli della città greca ha come sfondo le ciminiere della raffineria. Una città mostro tutta deformata da orribili palazzine, da immense cisterne ed enormi bombole di gas che si appoggiano alle dune. La bruttezza è talmente estrema da diventare archeologia di se stessa, un brutalismo ingenuo di illusioni di progresso industriale e di abusivismo edilizio. Il museo che è prospiciente al sito di capo Molino a Vento è un'orrida architettura anni Sessanta, un bunker che vorrebbe imitare il tufo dei templi.
Faccio il biglietto e mi lancio direttamente sull'acropoli, vedo studenti appoggiati ai resti di abitazioni greche. Mi fermo e chiedo loro che mi spieghino il posto. Ma sono studenti, mi dicono, dell'Accademia di Belle Arti. Mi sposto più su, sul sentiero che porta verso l'unica colonna del tempio di Atena - le altre e tutta la zona vennero saccheggiate da Federico II come se fossero una comune cava di pietra (impressionante pensare che tutto fosse ancora in piedi nel 1200, al-Idrisi, lo scrittore arabo che lavorava al servizio del re normanno, parla di una selva di colonne che si attestano accanto al corso del fiume Gela). Più in là tre individui parlano accoratamente di politica tra le zolle e i resti. Chiedo loro se per caso parlano della politica di Gelone e Terone, se trattano delle lotte tra Gela e Siracusa e Cartagine. No, parlano di politica locale. Ma prendono con divertimento il mio scherzo. E scopro che sono qui perché si è aperta in una struttura sull'acropoli una mostra di foto e pitture. Mi raccontano però di una nave greca smontata che si trova a Caltanissetta e che dovrebbe tornare qui, di un mosaico appena rinvenuto in città in casa di un privato. Ecco, la grecità che si infila nella vita quotidiana e diventa gossip. Però chiamano uno bravo che può farmi da guida.
Così conosco Giuseppe, un giovane archeologo di Gela, appassionatissimo, con cui cominciamo un duetto che durerà tutta la giornata. Vedo nelle sue parole che i Greci possono essere vivi non solo per me. Mi racconta per prima cosa di Timoleonte, di come quest'uomo giunto da Corinto avesse riscattato buona parte della Sicilia in mano ai tiranni liberandola in più dai cartaginesi. Una lunga vita di battaglie vinte e la capacità di ridare alla Sicilia greca il senso di un'unità. Gela, che era stata distrutta dai Cartaginesi nel 405 a.C, venne ricostruita da Timoleonte. Fa bene pensare che ci sia stata una Gela diversa da quella presente, importantissima, fondata nel 668 a.C. su una collina parallela al mare, alla foce del fiume Gelas, una delle maggiori colonie doriche di Sicilia. Tucidide dice che erano coloni da Rodi e da Creta. Il luogo fu scelto per la coltivazione del frumento e l'allevamento dei cavalli. Già pochi decenni dopo le popolazioni autoctone interne di Butera e Monte Bubbonia erano grecizzate. E fu Gela a fondare nel 582 Akragas. Il tempio dedicato ad Atena sorgeva sull'acropoli ed era ornato da magnifiche terrecotte policrome in cui i Gelesi (anzi i Geloi, come dicono gli studiosi dell'antichità classica) eccellevano; al museo se ne ammirano alcune. Ebbe una sequela di ambiziosi tiranni. Ippocrate, uno di questi, si inimicò le popolazioni vicine e provocò l'unica rivolta di grandi proporzioni degli autoctoni guidati da Ducezio. Alla morte di Ippocrate gli successe Gelone, discendente dei fondatori e della famiglia dei Deinomedi che finiranno per imporsi a quasi tutta l'isola. Gelone si imparenta con Terone, tiranno di Akragas, e si impossessa di Siracusa. Insomma l'influenza di Gela è talmente ampia che diventa uno dei centri propulsori della cultura greca in Sicilia. Eschilo vi scrive una parte della trilogia dell'Orato, anche se inutili fino a oggi sono state le ricerche per capire dove si situasse il teatro.
Dopo alterne vicende e dispute tra città greche di Sicilia e dopo l'intervento distruttivo dei Cartaginesi, Timoleonte appare come una nuova figura di fondatore con idee nuove in campo urbanistico e con una visione di pacificazione e alleanza tra le colonie greche. Per questo Giuseppe La Spina, il giovane archeologo, mi porta anzitutto a capo Soprano a vedere il magnifico bastione che Timoleonte aveva eretto a difesa della città da qualche anno tirato fuori da una duna di 60 metri di altezza. È uno spettacolo imponente, il basamento in pietra calcarea e il resto in mattoni crudi che si sono conservati perché protetti dagli strati di sabbia. Le mura correvano tutt'intorno alla città per 12 chilometri e si ergono ancora per un'altezza di sei metri e uno spessore di tre. Il tratto che visitiamo - un'opera muraria che corre per 400 metri - è stato scoperto per caso nel 1948 da un contadino che era convinto di aver trovato i resti del teatro di Eschilo. Parliamo della casualità con cui buona parte dei ritrovamenti archeologici importanti sono avvenuti. Sono sempre contadini o pastori o non professionisti a trovare le cose, raramente gli archeologi.
Torniamo al museo, che è una miniera di oggetti rari. Intanto un'enorme collezione di vasi e di anfore istoriate nello stile attico sia di provenienza dalla madrepatria sia di fattura locale.
[...]
Mi rendo conto per la prima volta di qualcosa che poi ritroverò in altri musei siciliani. Quello che vedo è la punta di un iceberg che mostra una parte di un immenso patrimonio, vasi, statue, ex voto, ceramiche e terrecotte, monete e argenti, are votive e teste di satiri e gorgoni che chiudevano i canali pluviali dei tetti dei templi. Il tutto accompagnato certo da spiegazioni, didascalie, bigliettini e chiuso in teche illuminate in maniera un po' incerta. C'è nell'insieme l'impressione di una fretta che non fa in tempo a rendere conto dell'enorme patrimonio e che forse non se ne rende conto. Di fronte ad alcuni vasi, come quello che ritrae Enea con Anchise sulle spalle, mi vengono le lacrime agli occhi. Fortuna che posso ancora vederli, penso, ma quanta distrazione apparente, quanta incapacità di racconto! Questi manufatti sono tra i più eccellenti della storia dell'umanità e sono trattati qui come parafernalia di una quotidianità a cui si è troppo abituati. Viene fuori un'Italietta anni Cinquanta che era già stufa di essere identificata con un passato classico e fremeva per la modernità delle 600 Fiat.

Eppure si continua per fortuna a scavare e scoprire. [...]

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