12.11.16

Un classico del 900. “La morte di Virgilio” di Hermann Broch (Giulio Schiavoni)

Hermann Broch
Il poema strappato all'imperatore
Nel corso dei secoli la figura di Virgilio non ha mai cessato di essere oggetto di culto e di rielaborazioni letterarie. Pochi autori, comunque, hanno saputo imprimere al personaggio una densità simbolico-concettuale pari a quella conferitagli nel nostro Novecento dall’ebreo viennese Hermann Broch, narratore-filosofo notoriamente complesso che in un momento cruciale per il patrimonio culturale europeo come quello del nazionalsocialismo, chiamò a un confronto serrato proprio il poeta di Mantova, febbricitante e ormai morente, e un imperatore del calibro di Ottaviano Augusto, utilizzando la leggenda medievale secondo la quale Virgilio avrebbe voluto bruciare il suo capolavoro, l’Eneide che gli avrebbe assicurato fama perenne: «Era logico pensare - ha confermato Broch - che uno spirito della grandezza di Virgilio non fosse stato costretto a un atto così disperato da futili motivi, ma che a un simile gesto avesse contribuito tutta la serie di ragioni storiche e metafisiche della sua epoca».
Quel confronto venne trasformato in un’occasione per problematizzarsi sulle ambivalenze della poesia, per scandagliarne grandezze e miserie, dando origine a un «classico» della letteratura del Novecento, Der Tod des Virgil, riedito ora da Feltrinelli nella ariosa traduzione di Aurelio Ciacchi e apparso originariamente in edizione bilingue (inglese e tedesca) nel 1945 presso una casa editrice di New York (l’autore viveva ormai da anni esule negli Stati Uniti, sua patria d’elezione, ove si sarebbe spento nel 1951).
Questa ristampa va salutata con favore. Nel 1962, quando uscì in italiano il romanzo fu accolto con rispetto, ma non parve destinato a grandi cerchie di lettori. Nel frattempo l’interesse critico per la cultura asburgica s’è accresciuto, e può darsi che anche i più giovani siano più generosi persino nei confronti di uno scrittore notoriamente ambiguo e raffinato come Broch, erede della tradizione ebraica e spietato demistificatore delle nostalgiche sicurezze della Mitteleuropa e della civiltà danubiana, del quale d’altronde negli anni scorsi sono stati riproposti tre altri romanzi (L’incognita, Editori Riuniti; I sonnambuli, Einaudi; Il sortilegio, Rusconi) e due saggi tra i più significativi (Hofmannsthal e il suo tempo, Editori Riuniti; Il Kitsch, Einaudi).
Quale intenzione sorregge simile viaggio a ritroso? Perché mai rievocare il cantore del ritorno dell’età dell’oro, il prefiguratore del Messia cristiano (Iam redit et Virgo...) della IV Ecloga?
Nell’epoca di Virgilio, Brodi crede di poter ravvisare un significativo parallelo con la negatività della storia presente, i tratti cioè di una «cultura» ridotta a Kitsch, la minaccia concreta di un «vuoto» epocale. Rifiuta pertanto la tesi piuttosto diffusa tra gli storici secondo cui l’epoca di Augusto avrebbe rappresentato la fioritura artistica, sociale e politica di Roma, mentre la «crisi» del sistema romano sarebbe intervenuta propriamente a partire dal III-IV secolo d.C.; intende cioè evidenziare la presenza di una «disgregazione dei valori» (per riprendere il titolo di un celebre saggio contenuto nei Sonnambuli) proprio laddove apparentemente trionfava l’ordine edificato dall’imperatore, dal rappresentante del Sacro. Al tempo stesso l’allegorica trasposizione dei nodi tematici a lui più cari in un contesto così remoto era un modo per guadagnare distanza dai vissuti personali che fanno da sfondo alla prima elaborazione del romanzo, avviata nelle carceri di Alt-Aussee, nel Tirolo, dove Broch finì in quanto ebreo dopo Anschluss, nel 1938.
Grandioso monologo interiore, molto simile ad un'ininterrotta autoanalisi, con le sue oltre cinquecento pagine (e l’autore avrebbe desiderato aggiungerne altre duecento, considerando il romanzo troppo affrettato!) La morte di Virgilio si presenta come una sinfonia in quattro movimenti (Arrivo -La discesa - L’attesa - Il ritorno) in cui l’intellettuale moderno - nei travestimenti del cantore di Roma - attua il «ritorno» alla purezza di una mitica origine distaccandosi dalle menzogne del terrestre, matura l’esperienza della morte e proietta nell’itinerario virgiliano il dramma di una generazione di intellettuali posti di fronte all’ascesa di Hitler.
Un romanzo del genere, definito «l’unico libro del dopo-Joyce», resta certamente debitore delle esperienze dell’Ulysses joyciano e dello sperimentalismo di Musil, e appare forse troppo stratificato e complesso, ma affascina comunque per la capacità di dialettizzare continuamente i temi e i motivi che vi si agitano (motivi anche mitico-allegorici legati alla rielaborazione brochiana degli studi scientifici di Jung e Kerényi, come soprattutto ad esempio la figura del fanciullo divino Lisania, ricalcato sull'Hermes psicopompo, e quella della sensuale Plozia, l’amata di Virgilio, ricalcata sull’archetipo della Core).
Il romanzo brochiano sembra però soprattutto far tesoro della grande lezione kafkiana sulla precarietà dell’arte e sulla letteratura come menzogna: «Il giocoso o il disimpegno - ha scritto Brodi – sono inammissibili all’epoca delle camere a gas...».
Di qui la difesa delle ragioni dell’arte nei confronti del grande mecenate, che di fatto attenta alla sua autonomia, e di qui contemporaneamente la denuncia della debolezza e del limite di ogni fiducia assoluta nella «bellezza», la denuncia dell’esteta che confidi nel carattere assoluto e «redentivo» della creazione artistica nei confronti del potere. Per questo il cuore, intensamente drammatico, della Morte di Virgilio è costituito dal confronto-scontro tra Augusto, presentato - nella mitica prospettiva di un giovane senza età giunto a compiutezza - come il custode della religiosità ufficiale e del Sacro e insieme come il portavoce dello Stato (al quale l’individuo deve hegelianamente tutto assoggettare e sacrificare), e Virgilio, poeta dell’Eneide che sa umilmente di poter soltanto fruire delle inconsistenti visioni adunatesi nel suo animo con la complicità della febbre e di doversi confrontare con l’assenza degli dèi, nella crisi dei valori.
L’imperatore, rappresentante del potere, non a caso rivendicherà il poema che lo celebra, si adopererà nel persuadere Virgilio a consegnargli l'Eneide, in quanto poema per lo Stato.
In una delle scene più alte del libro Virgilio si avvedrà che la sua Eneide è di fatto un poema indifeso, creatura di un imperatore che fagocita anche l’opera d’arte non disposta a celebrare il potere. Per questo al poeta non sembra restare altre scelta che quella di bruciare 1’Eneide, per non doverla consegnare ad Augusto, per farla restare il poema di Plozia, dello spazio figurale non riconducibile al potere: in un’altra scena non meno suggestiva, grazie alla mediazione di Plozia, Virgilio parrà confrontarsi (oniricamente?) con 1’altra Eneide, quella non visibile e non scritta (e dunque non tecnicizzabile politicamente) custodita da Plozia: «Non era il suo occhio che leggeva, solo le punte delle sue dita leggevano, leggevano senza lettere, leggevano mute un linguaggio senza parole; leggevano il poema senza linguaggio dietro il poema di (?) parole...».
E tuttavia all’improvviso Virgilio, attuando una sorta di «mistica del sacrificio gratuito» (come la definisce Ladislao Mittner nella densa Prefazione al volume), si decide - in un estremo gesto d’amore - a rimettere la sua vita nelle mani dell’imperatore romano, in cambio della liberazione dei propri schiavi da parte di Augusto; accetta cioè, per così dire, di venire a patti col suo antagonista.
All’origine di tale gesto non sta tuttavia la resa, bensì la consapevolezza di Virgilio di non poter morire puro e incontaminato rispetto al potere, ma di dover morire proprio in qualità di poeta dell’«Eneide», di dovere cioè morire come ha vissuto: ossia con tutto il peso dei compromessi da lui attuati come aedo del potere.
Il tormentato viaggio alla ricerca dell’ origine, della «patria» , novalisiana risalita verso e attraverso gli strati dell’esistenza dell’umanità e del cosmo, si conclude ritualmente con l’affacciarsi sul versante orfico del silenzio: «Essa (la parola) era per lui incomprensibilmente ineffabile, perché era al di là del linguaggio». La poesia, che una volta Broch definì «impazienza del conoscere», si rivela qui tutta protesa verso il proprio trascendimento, come una staffetta capace di slanciarsi verso un territorio che tuttavia non potrà raggiungere, come la ricerca della verità alla quale è pronta a sacrificare se stessa, come una tensione all’assoluto che scardina non solo le false certezze della Mitteleuropa, ma i limiti stessi del linguaggio.
Gioca in ciò - come qualcuno ha osservato - la suggestione del Wittgenstein paradossalmente (e segretamente) ostile all’empirismo del Circolo di Vienna e alla facile fiducia dialettica allorché nel Tractatus logicus-philosophicus afferma con audacia: «Le mie proposizioni illustrano, così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse - su di esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito)». Ma questa chiusa del romanzo si direbbe offra anche il definitiva sigillo di quella situazione effettiva e concreta di «vuoto» dalla quale malgrado tutto la scrittura brochiana, sempre sospesa tra apocalissi e messianismo, non può prescindere, pur affacciandosi sull’utopia. Viandante alla soglia, Broch finisce per confermarsi anche in questo suo romanzo, summa del suo sentire, quello scrittore che - con formula assai felice - Hannah Arendt, a lui vicina negli ultimi anni, ci avrebbe consegnato definendolo l’uomo del «non più e non ancora».


“latalpalibri – il manufesto”, 28 maggio 1993

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