4.8.17

L'eterno ritorno a Borges (Dany Laferrière)

Lo scrittore Dany Laferrière, haitiano naturalizzato canadese.
BORGES È UN LIBRO
Tengo sempre un libro di Borges sul comodino. Quando sento di averlo letto a sufficienza, lo sostituisco con un altro, ma sempre di Borges. Certo, leggo anche altri autori (Baldwin, Bulgakov, Tanizaki, Bashò o Diderot), ma poi torno sempre a Borges. Perché? Perché secondo me è l’essere più intelligente e l’uomo più cortese che io abbia mai conosciuto. Rimango incantato di fronte alla sua curiosità, così insaziabile da sfiorare quasi l’ingenuità. A chi gli chiede: «Ma lei è Jorge Luis Borges?», lui risponde: «Cosa vuole che ne sappia? Io non so niente di me. Non so nemmeno quando morirò». È raro che la morte costituisca oggetto di curiosità. Per Borges non è solo una bella parola, come anche per Villon, che non esita ad avvertirci della gravità della cosa («Hommes, ici n’a point de moquerie», «Uomini, qui non c’è da scherzare»). Eppure non fatico a immaginare il vecchio poeta argentino mentre aspetta serenamente la sua ultima ora con il bastone tra le gambe. Non è un caso che quest’uomo abiti la mia mente da più di trentadue anni. E non solo: questo vecchio cieco si muove da una cultura all’altra neanche fosse nella sua camera di Buenos Aires. È a casa sua nella letteratura islandese come nel teatro shakespeariano, nei romanzi di Stevenson come nella poesia di Lugones; è a suo agio più nell’Antichità greca che nel Ventesimo secolo, dove sembra essere capitato per sbaglio. Ma il motivo che mi spinge a continuare a leggerlo con tanta assiduità è che, nonostante la sua incredibile erudizione, Borges rimane un bambino che ha paura del buio. Quando finge indifferenza di fronte alla cecità che l’ha colpito, è solo per far credere alla madre di non soffrire. Eleganza e coraggio sono le parole che più definiscono Borges. Io non leggo un libro di Borges: io leggo Borges. Quando prendete in mano Finzioni o L’Aleph siate delicati, perché Borges vi guarda da dietro le pagine.

VIVO DOVE SCRIVO
Non so perché, ma appena arrivai a Montreal sentii che quella città mi avrebbe permesso di fare il salto. Avevo 23 anni e mi ero appena lasciato alle spalle l'universo angosciante dei Duvalier, quella Port-au-Prince che di notte pullulava di rivoltelle e cani gialli. Ad Haiti facevo il giornalista e dovevo scrivere guardandomi le spalle. E ora, invece, eccomi in una città nella quale si poteva circolare senza avere paura. Ho preso in affitto una stanzetta sporca ma luminosa in rue Saint-Denis, in pieno quartiere latino, accanto a un parchetto frequentato da certi bevitori di birra alla Bukowski che abbordavano le ragazze dell'università Mc Gill. Dall'altra parte della strada il poeta Gérald Godain viveva la sua passione con la cantante Pauline Julien. Il poeta Émile Nelligan, diventato famoso per aver utilizzato due volte in un verso brevissimo la parola “neve” («Ah, comme la neige a neigé»), ha passeggiato in questo parco prima di terminare la sua vita in un ospedale psichiatrico. Quello era decisamente il posto ideale per tentare di diventare uno scrittore.
(...)
Spesso mi chiedono: come mai tutta questa passione per gli articoli? Un giorno ho incontrato un ragazzo che aveva la stessa opinione di Lucien Montas, la Sfinge del Nouvelliste: «Signore, - mi ha detto - devo confessarle che a me piace leggere solo testi brevi e con frasi corte». Ho pensato che forse la sua idea era che temi anche molto diversi tra loro potessero fondersi in un tutto armonioso, come in una zuppa di pesce bella speziata. Avevo dunque trovato il mio campo da arare, un po’ come Borges, che non ha mai lasciato la biblioteca.


Dalla lectio magistralis che Dany Laferrière ha tenuto a Firenze il 15 giugno al Cenacolo di Santa Croce nell’ambito del Premio Gregor von Rezzori, dedicato a I luoghi della letteratura, in “Il Sole 24 ore, 11 giugno 2017”

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