15.8.17

All'armi siam fascisti! Anni 60: un film censurato con le parole di Fortini (Massimo Raffaeli)

«Paese Sera» apre la cronaca di Roma del primo giugno ’62 titolando Proditoria e rabbiosa imboscata dei missini che lanciano dalle finestre sedie sugli studenti all’uscita del cinema ‘Quattro Fontane’. Dei sei feriti e delle decine di contusi documentano alcuni scatti fotografici, mentre occhiello e sommario sintetizzano i fatti seguiti alla proiezione del film All’armi siam fascisti, organizzata dal giornale nel cinema che ha sede al pianoterra dello stabile dove si trova la sezione del Msi.

Graffiti su un muro
L’imboscata non ha avuto nulla di spontaneo e peraltro quel film, costruito su materiali di archivio, prodotto l’anno prima da una sigla vicina al Psi, la Universale Film, firmato da tre cineasti della sinistra socialista, Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, sembra destinato a una vita impossibile: non più che tollerato dai dirigenti socialisti (e si dice che persino Pietro Nenni all’anteprima abbia chiesto la modifica dell’immagine finale, un perentorio «No al fascismo» nudamente graffito su un muro), malvisto dai vertici del Pci per l’antistalinismo che lo innerva dall’inizio alla fine, sospettato di estremismo e addirittura di trotzkismo, il film è stato ammesso di straforo al Festival di Venezia ’61, circola ufficiosamente nei cineclub e viene ritirato nel 1964, quando il clima politico, nel corso della cosiddetta «congiuntura», vede ormai raffreddarsi gli entusiasmi suscitati dal primo governo di centrosinistra. Non verrà mai trasmesso dalla Rai e neanche dalle reti commerciali, se si eccettua un tardivo passaggio, nel 1994, a Telemontecarlo per iniziativa di Sandro Curzi. Perciò è un vero avvenimento che la Raro Video-Curti Editori ne proponga oggi il dvd (euro 16.99, presentazione di Sergio Staino, introduzione di Marco Bertozzi con estratti da un documentario di Davide Barletti e Lorenzo Conte sul cinema di Cecilia Mangini) unitamente a una brochure, a cura di Bruno Di Marino, che raccoglie materiali e recensioni d’epoca dove spiccano i giudizi positivi di Alberto Moravia, Ada Gobetti, Ugo Casiraghi, Carlo Di Carlo nonché una nota di Pier Paolo Pasolini che, su «Vie Nuove» del 30 settembre ’61, parla di un «film stupendo, una delle più emozionanti opere cinematografiche che abbia mai visto».

Violenze antioperaie
Ma che cos’è All’armi siam fascisti!, quali le ragioni per cui è stato maledetto a destra e, nella sostanza, rimosso a sinistra? Per intenderlo vanno almeno ricordati due fatti: intanto l’avere accolto in senso militante la lezione del luglio ’60 e cioè il neofascismo risorgente con gli scontri a Porta S. Paolo, a Piazza De Ferrari a Genova, i compagni freddati sul selciato a Reggio Emilia, i sinistri rumori di sciabole del governo Tambroni; e poi il rifiuto della vulgata antifascista nel senso del patriottismo nazional-popolare con la certezza, viceversa, che il regime di Benito Mussolini sia stato propriamente l’organizzazione armata della violenza capitalistica, antipopolare e, in primis, antioperaia.
È, questo, un punto di vista di classe che mette in allerta l’Istituto Luce, il quale rifiuta di concedere i materiali di repertorio, tanto che gli autori sono indotti ad attingere a fondi esteri, archivi ufficiosi e privati, tra cui quelli di Joris Ivens, della Cinémathèque parigina, della resistenza antifranchista in esilio e della Repubblica jugoslava. Il periodizzamento è scandito nel lungo periodo, tra le aggressioni coloniali in Libia (con la drammatica apertura sui libici impiccati dagli italiani «brava gente») e il culmine della guerra fredda che da noi coincide con i trionfalismi di «Italia ’61», tra i rigurgiti neofascisti e l’apertura a sinistra della DC di Aldo Moro.

Dominio di classe
L’ottica mira verso il basso, al vissuto delle masse e, insieme, alle strategie che il regime allestisce per garantirsi il consenso; Mussolini non vi è onnipresente (a parte talune sequenze celeberrime come quella in cui lancia, a torso nudo, la «battaglia del grano») e anzi il Duce condivide la scena con i dittatori chiamati in Europa a un identico dominio di classe sia pure in contesti ambientali e con modalità operative anche molto differenti, cioè Hitler, Franco, i militari mitteleuropei, mentre incombono ad ogni passaggio di fase gli effettivi mandatari, le élites economico-finanziarie, gli industriali, gli agrari, un Vaticano sempre benedicente; infine, la prospettiva antagonista nel film non è mai proclamata ma essa viene colta, come deducendola ogni volta dal proprio sottotraccia, per anticipi e violente rotture (l’Ottobre rosso, la Repubblica spagnola, il Fronte Popolare, la Resistenza italiana, le rivoluzioni anticolonialiste, il ritorno delle lotte in Italia) secondo una linea espositiva che punta alla diffrazione del punto di vista e alla consapevole parzialità dello sguardo, mai alla conclusione irenica o alla conciliazione dialettica.
Minima è anche la quota propagandistica, nonostante fra i modelli rientrino alcuni classici della retorica antifascista quali La battaglia per l’Ucraina di Dovzhenko e Perché combattiamo di Frank Capra.

Solitari travagli
La sintassi del film, laddove è più evidente la mano di una grande documentarista come Cecilia Mangini, procede per blocchi la cui figura dominante è l’antitesi e pertanto la netta distinzione di interessi/ideali/ prospettive fra «loro» (gli eminenti, i detentori del potere economico politico, l’alto clero della cultura) e «noi», gli assoggettati al dominio di classe, gli individui ammutoliti, deprivati di potere e destino.
Se la musica di Egisto Macchi, nelle sue volute di spessore epico come negli stacchi antilirici e didascalici, è memore dei rivoluzionari Kurt Weill e Hanns Eisler, il commento è affidato, nientemeno, a Franco Fortini. Ci informa il suo biografo Luca Lenzini (nella accurata cronologia che precede, introdotti da Rossana Rossanda, i Saggi ed epigrammi, Mondadori «I Meridiani» 2003) che costui si è congedato dal Psi già nel 1957, dopo anni di isolamento e di aspre polemiche, all’uscita di uno dei suoi libri maggiori, la raccolta saggistica Dieci inverni. Contributi ad un discorso socialista. Nei mesi di un travaglio personale e ideologico cui sopravvive solamente il rapporto con alcuni outsider del partito (su tutti Raniero Panzieri e Gianni Bosio: e qui si veda nel dettaglio, ricchissimo di riferimenti e apporti documentari, il volume di Mariamargherita Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura 1953-1960, appena uscito da Ediesse) Fortini sceglie lo straniamento e il magistero di Bertolt Brecht, perciò le sue parole sono dette frontalmente, per catene anaforiche e legami metonimici esonerati dalle oscurità e ambiguità del Grande Stile novecentesco.
Se infatti Brecht aveva scritto che «i massacratori escono dalle biblioteche», così Fortini, che lo ha tradotto, si pronuncia davanti alle maschere immonde della dittatura: «I veri maestri/ non lasciano tracce, non si esibiscono ai balconi/ e per questo ancora oggi/ non si possono fare senza rischio i loro nomi./ I maestri di Mussolini e di Hitler,/ di Farinacci e di Eichmann/ sono negli uffici studi delle banche,/ nelle poltrone dei consigli di amministrazione;/ sono sulle cattedre universitarie,/ nella Accademia Berlinese delle Scienze/ o nella Accademia d’Italia».

Scegliere, decidere
Affidandone la partitura scritta a una collana diretta dal suo compagno Gianni Bosio (Tre testi per film, Edizioni Avanti! 1963), Fortini lamenterà alcune insufficienze dell’opera e tuttavia ribadirà il fatto che la storia è innanzitutto storia della lotta di classe e che il nemico principale, ora come allora, resta l’ordinamento capitalistico della società.
Nella sequenza finale di All’armi siam fascisti!, mentre scorrono le immagini dei morti nel luglio del ‘60, il poeta passa direttamente al «voi» e chiede dunque a tutti noi: «La vostra coscienza che cosa ha da dire?// Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il vostro/ destino è solo vostro. Rispondete».

“il manifesto”, 7 dicembre 2011

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