23.8.17

Quanto dura la poesia? (Eugenio Montale, 1963)

Quando non esisteva ancora l’arte della stampa la materiale sopravvivenza delle opere poetiche era più che dubbia. Gran parte della letteratura greca non è riunta fino a noi: molto di più della latina, ma non senza grosse lacune. Se il Satyricon fosse stato «tirato» a diecimila copie noi lo conosceremmo per intero e sapremmo se i suoi presunti numerosi volumi formavano un’opera a modo suo organica, una sorta di Ulysses del suo tempo. Se possedessimo un esemplare a stampa della Commedia uscito dai torchi sotto il controllo dell’autore molte dotte induzioni e ricerche ci sarebbero state risparmiate (non in tutti i casi analoghi, se si pensa alle differenze che si notano tra una copia e l’altra del primo Ortis).
Prima dell’invenzione di Gutenberg la selezione delle opere letterarie era dunque affidata al caso: pochi i codici, molti gli incendi e le distruzioni. E oggi? Oggi si direbbe a prima vista che tutto quel che si stampa sia destinato a durare per molti secoli. Ed è infinitamente probabile che nelle cantine e nei sottoscala di qualche biblioteca la maggior parte dei libri che si vengono pubblicando resti a disposizione di sempre più rari studiosi. Ma il vero problema non è questo: è piuttosto nella moltiplicazione delle lingue che stanno creandosi una loro letteratura e nella proliferazione (e nella conseguente usura) dei vari linguaggi, sempre più desunti non dalla tradizione illustre, ma dai dialetti e dai vocabolari tecnici. Mentre si universalizzano le mode, i costumi, il comportamento, un moto contrario di specificazione capillare si avverte nella lingua degli scrittori. Non si scrive più nella lingua di tutti, la lingua, suppergiù, che parlavano i nostri padri, ma nel gergo del proprio clan, del proprio mestiere, in quest’ora e in questo momento. Essere originali oggi significa essere incomprensibili dieci anni dopo.
Moltiplicate questo stato di cose per forse trenta, quaranta letterature in fieri e ditemi che cosa sarà, nei secoli futuri, lo sterminato ginepraio della letteratura mondiale. Le traduzioni? Le opere originali sono poco traducibili; e saranno anche tanto numerose da scoraggiare posteri sempre più impegnati nella «produzione».
Sopravviveranno soltanto alcune opere delle lingue egemoniche, eventualmente la russa e l’inglese? Impossibile fare previsioni; da molti indizi si direbbe che l’arte della parola sia in via di esaurimento perché esistono forme di comunicazione molto più dirette; e in fondo il linguaggio espressionistico che «mima» il parlato di tutti i giorni tende piuttosto al grugnito e all’interiezione che alla parola nel suo limite semantico. È possibile che tra qualche secolo si formi un pidgin universale molto adatto alle didascalie di film e agli annunzi pubblicitari (ed anche, in parte, a una rudimentale conversazione), ma che le vere e proprie lingue letterarie esistenti oggi siano accessibili solo a rari specialisti.
E di quella che fu la letteratura italiana che cosa potrà sopravvivere? Diceva un giorno Missiroli: «Non si può essere un grande poeta bulgaro»; e cioè che una letteratura esiste solo quando ha dietro di sé un peso, una somma di valori storici culturali ed economici. Solo allora il mondo se ne accorge. (Si accorgerà di noi, dell’Italia fanfanesca di oggi, il mondo di domani? Si vorrebbe sperarlo, ma purtroppo, con Gutenberg o senza Gutenberg, le vie della distruzione sono infinite).


Corriere della sera, 5 maggio 1963

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