5.4.18

Carteggi. Gadda a Citati, Ungaretti a Piccioni: le lettere di due pesi massimi (Raffaele Manica)

Carlo Emilio Gadda in un ritratto di Fracesco Messina (1939)

Per più motivi non sarà mai allestito, si crede, uno di quei bei tomoni eleganti, da monumentale collezione di classici letterari – esempio un volume ricciardiano –, recante sul dorso «Epistolografi del secondo Novecento». Nelle lettere della seconda metà del secolo andato troppo è intervenuto a sommuovere un paesaggio già fermo per secoli. Da un lato motivi di abbondanza, in più senza regolamento o adeguata normativa; dall’altro la predominanza, fino all’esclusività, del dato intimo e autobiografico messo accanto ad aneddoti minuti e a comunicazioni di servizio che non fanno storia. In più, si sa, il genere epistolare, lo si chiami così anche in assenza di un codice specifico, è non da ora molto languente – l’abbondanza che si è detta, dal dopoguerra a circa gli anni settanta, fu proprio precedente la carestia: un’esplosione con tutta l’energia a disposizione.
La decadenza da almeno un quarto abbondantissimo di secolo, non c’è bisogno neanche che si dica dovuta alla capillarizzazione telefonica prima e poi alla posta per via elettronica: del genere in estinzione per eccellenza (non sono infatti in estinzione, nonostante i reiterati «al lupo al lupo», né il romanzo né la poesia), della sua estinzione dunque, arriva attestato perfino in sede storiografica (per gli amanti o semplicemente praticanti della questione, assomiglia, per problematica, al vaporizzarsi delle varianti d’autore). Addio, nel Novecento epistolare tutto comunicazioni e sfoghi, ai celebrati e rinomati modelli antichi, nella nostra letteratura da Petrarca fino a Leopardi, a Manzoni; con alcune appendici sfioranti gli anni settanta, però, non di rado di cospicuo rilievo, come quelle presentate ora in contemporanea per una singolare congiuntura editoriale, e riguardanti due insigni di peso massimo: Carlo Emilio Gadda (Un gomitolo di concause - Lettere a Pietro Citati (1957-1969), a cura di Giorgio Pinotti, con un saggio di Pietro Citati, Adelphi «Piccola Biblioteca») e Giuseppe Ungaretti (L’allegria è il mio elemento – Trecento lettere a Leone Piccioni, a cura di Silvia Zoppi Garampi, con una testimonianza di Leone Piccioni, Oscar Mondadori, pp. XL-368).
Entrambi i volumi con nel titolo escogitato editorialmente – a richiamare i capitoli grandi degli scrittori – una parole-chiave (il gomitolo e le concause che incontriamo come categorie poliziesco-filosofiche di Ingravallo all’ingresso del Pasticciaccio; l’allegria eletta da Ungaretti non solo a titolo della sua raccolta ma a sigla, come basso continuo della vita di un uomo e in contrappunto a insanabile dolore); entrambi con i destinatari diventati, dei rispettivi corrispondenti, tra i maggiori interpreti.
Due pesi massimi e dunque due modelli di letteratura: Ungaretti, l’osseo dal respiro animale, l’esuberante attaccato alla vita, tendente infine al barocco; Gadda, il carnale che lotta contro la propria stessa carne, in un teatro sempre barocco e cerimonioso, con la vita sul filo dei nervi, ritraentesi dal mondo.
Di Gadda ritorna anche nelle lettere a Citati la difficoltà e quasi l’impossibilità a muoversi, quasi fosse insostenibile il peso e non rinvenibile l’energia per trascinare il corpo lontano dalla città e anzi dal quartiere di residenza, che è un tratto biografico fondamentale, tanto da essere dominante nella nota di copertina alla prima edizione del Pasticciaccio; e ritorna soprattutto «l’aspra rivalità tra gli editori» che alimenta anche stavolta come in altre lettere ad amici e parenti «un fosco epos, folto di avvoltoi che si gettano su una carogna, tigri che si contendono un capriolo, menadi che sbranano il piccolo Bacco, lupi che si accapigliano su un cadavere» (Pinotti). Così quando nel 1956 diventa consulente di Livio Garzanti, mentre Gadda consegna a puntate dalle cadenze estenuanti il Pasticciaccio, Citati «si trova ben presto alle prese con una situazione irta di spini», ricorda ancora Pinotti.
Ma ben presto «il dottor Citati Pietro», nelle parole di Gadda, «solerte coadiutore», viene riconosciuto «valido aiuto, anche esercitando giudizio censorio ed eliminatore». Nonostante l’ombra che magari si può intravedere nella coppia di aggettivi appena trascritta, nasce consuetudine tra Gadda e il «giovane critico torinese-siculo allievo di Contini» (sia detto per inciso: a tutte le distanze che Citati ha da allora preso nei confronti di Contini si può aggiungere l’aver evitato che il presente libro di lettere uscisse «a cura del destinatario», come fu per quelle indirizzate da Gadda appunto a Contini. Citati ha testimoniato a Pinotti quel che gli sembrava sufficiente, ripubblicando in coda al volume un suo noto saggio gaddiano). Le lettere di Gadda, benché ci facciano incontrare un personaggio ormai noto, sono non di rado bellissime, soprattutto nei passaggi dove quel personaggio sembra in scorcio riepilogare se stesso, affondando in profondità ricche, se si può dire, di scoramento.
Per esempio, da via Blumensthil datata domenica 16 agosto 1959 (l’accoppiata Ferragosto-domenica lascia immaginare una Roma deserta, come sarà da lì a poco rappresentata nel Sorpasso): la calma auspicata arriva, ma raddensa solitudine: «Il terrore che tutti si stanchino di me e de’ miei casi così poco pittoreschi, mi ha ormai avvinto. Forse un ritorno in Lombardia, una diretta rievocazione delle prime percezioni della vita, le più intense, le più vive ed esatte, anche se dolorose o commiste a scoramento, mi gioverebbe. Forse il clima natio, e la gente natia: ma non so. C’è la noia atroce del borghesume dei conoscenti e parenti, delle loro misure grette, prive di ogni sensitivo apprendimento, opache e stronze». È La cognizione del dolore.
Giuseppe Ungaretti con Anna Magnani
Un tratto non assente nelle lettere di Gadda a Citati diventa sorprendente nelle lettere di Ungaretti a Piccioni: come, nonostante la frequentazione di persona, se ne scrivessero tante. Gadda scrive a Citati soprattutto nei mesi estivi, quando il suo corrispondente è fuori città; del lungo, ininterrotto sodalizio tra Ungaretti e Piccioni ci viene consegnato un repertorio di trecento lettere, che vanno dal secondo dopoguerra alla morte del poeta. Il temperamento di Ungaretti nella considerazione di sé è opposto a quello di Gadda. Quando viene a sapere dell’imminente nomina a senatore di Montale Ungaretti scrive: «Non dico che Montale non abbia meriti, e ha avuto grossi riconoscimenti: il premio Feltrinelli, per esempio», e fin qui siamo nella norma, nello standard dei rapporti tra letterati: indagando, non si troverebbe un carteggio esente da confronti di tal fatta. Ciò che è solo di Ungaretti è il misto di innocenza e narcisismo nell’opinione su se stesso: «Ma nessuno si accorge dell’ingiustizia che, per intrighi, si sta commettendo, non per la prima volta, a mio riguardo? Sono, e dovrebbe essere indiscutibile, il maggior poeta italiano vivente, e, forse, il maggiore del mondo», con quel «forse» che è davvero impagabile, come il «quasi» che sta per arrivare: «Tradotto in quasi tutte le lingue parlate, accolto trionfalmente a Mosca come a New York» e così via. Dalla lettera, del 10 gennaio 1963, alla nomina di Montale passeranno quattro anni. Non si vuole immaginare il tormento e il rodimento. Come era successo per la vicenda della sua carriera universitaria, per la quale, di nomina governativa durante il ventennio, dovette essere «defascistizzato» e poi passare per le solite scartoffie burocratiche, così anche per il generale ambiente culturale Ungaretti ritiene di dover scontare la nomina ad Accademico d’Italia negli ultimi anni di Mussolini (per il quale aveva nutrito, del resto, sincera ammirazione, fino a dedicargli un libro non secondario).
Le lettere di Ungaretti sono piene di movimenti, di rapporti, di personaggi, così come fitte di richiami a piccole e grandi situazioni. Per questo occorre fare qualche osservazione sulla tecnica o, se si vuole, sull’arte dell’annotazione, messa qui in campo dai curatori in maniera diversa ma ugualmente funzionale. Più di quanto non si creda le lettere e gli epistolari sono documenti ora ostici ora insidiosi, si prestano a fraintendimenti e a valutazioni affrettate. E invece vanno presi, in quanto documenti, con ogni cautela e incrociando le testimonianze. Al modo della poesia satirica, tutta spesa sull’attualità, hanno bisogno, per i lettori, di molte informazioni. E non è detto che i lettori, sempre, imparino meno dall’annotare che dalle lettere stesse.


"alias domenica - il manifesto", 13 ottobre 2013

Nessun commento:

statistiche