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5.9.19

La luce di Dante. Una mostra in Abruzzo nel 1993 (Mario Novi)


Federico Zuccari, Giudizio Universale  (part.) - Firenze, S.Maria del Fiore

Torre dei Passeri - Questa volta la Casa di Dante in Abruzzo, che ormai da molti anni dedica mostre al rapporto fra artisti e Dante nelle sale del suggestivo castello di Torre de' Passeri (memorabili quelle di Fussli, di Blake, di Botticelli, di Raffaello per non restare che a pochi esempi), ha scelto un artista non molto noto al di fuori della ristretta cerchia degli specialisti. Si tratta di Federico Zuccari (Sant'Angelo in Vado 1540-41 - Ancona 1609), pittore, architetto, trattatista, scrittore d'arte ed estroso fratello di Taddeo (1529-1566), di cui è allievo e col quale molte volte lavora. Il rapporto tra i due è segnato, da parte del più giovane Federico, che sogna di rendersi autonomo, da un misto di impertinenza e di devozione.
Siamo in epoca di tardo manierismo, termine che Corrado Gizzi, ideatore e infaticabile curatore delle esposizioni di Torre de' Passeri, sottilmente considera un "interludio platonico", tra razionalità e fantasia, tra bellezza naturale e bellezza immaginata (era stato proprio Michelangelo a parlare di "disegno interno", di "forma spirituale"); e Federico, nel libro Idea de' pittori, scultori e architetti che pubblica a Torino l'anno 1607, tratterà appunto di "disegno interno" e "disegno esterno". Federico Zuccari è un inquieto, un assetato di sapere, un viaggiatore: visita città e soggiorna nelle corti di mezza Europa, scrive, prende appunti, esperimenta, disegna. Tra le sue opere più note: Il Barbarossa prostrato davanti al papa (Venezia, Palazzo Ducale), Adorazione dei Magi e Adorazione dei pastori (Spagna, Escorial), Flagellazione di Cristo (Roma, Santa Lucia del Gonfalone). A Firenze, Federico Zuccari completa il Giudizio Universale, iniziato dal Vasari per l'intradosso della cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore (1575-1579). Ed è forse qui, e in questi anni, che gli viene l'idea di Dante.

Le parti del poema
Il poeta diventerà per Federico una specie di emblema: non tanto nel senso di una figura che simboleggia qualche cosa, quanto invece nell'accezione etimologica, dal greco "emballo" (getto dentro). Dante rimane infatti in Federico come un incastro da cui non si può distogliere, come un elemento di rivelazione. Ci ripensa alcuni anni dopo quando, durante un suo soggiorno in Spagna (1585-1588), realizza una serie di illustrazioni della Divina Commedia: ottantotto disegni che, rilegati in volume, vennero dopo varie vicende in possesso di Anna Luisa de' Medici che, nel 1738, li donò alla Galleria degli Uffizi alla quale appartengono; ed ora sono esposti per la prima volta nel nostro secolo: ecco la mostra. I disegni relativi alla prima cantica sono eseguiti con matita rossa e nera; quelli del Purgatorio, in gran parte con penna e bistro; quelli del Paradiso Terrestre e del Paradiso, con sola matita rossa. Ma non è solo la tecnica del mezzo a distinguere le parti del poema. Per ogni cantica, Federico cambia impostazione di spazi e di figure e, soprattutto, di luce. Cerca cioè di rappresentare ogni volta, come mi suggerisce lo studioso Claudio Strinati, una luce-utopia, una sorta di luce che, quando la incontri e la vedi, non è più nulla (e chi non si rammenta delle superbe acrobazie di Dante nel descriverla? O sviene o s'addormenta o non vede e ne è comunque e sempre misteriosamente abbagliato).
Nel riquadro delle illustrazioni Federico inserisce spesso, per iscritto, interi brani della Divina Commedia che, nella relazione tra spazio ed episodio, costituiscono un elemento forse di sottolinea, ma che non esce mai dalla perfezione del ritmo figurativo: lo scritto diventa grafica, diventa effigie. A volte spazi incombenti, oppressi da rupi, da caverne, animati da tratti, da penombre; a volte spazi liberi, astratti, cadenzati da inattese architetture. Se lo spazio, com'è da credersi, esprime in questi disegni il problema fra realtà e immaginazione di essa, le figure che vi sono inserite nel significato dell' episodio (nuvole, alberi, fuoco, piogge, fumo) diventano zigomi, sagome, arabeschi, nudità perfette ed esortanti, orride, anelanti, spirituali, corrotte: contraddizione dannata della vicenda quotidiana; un enigma che il segno stesso di Federico, sinuoso, raffaellesco, trasmette con insolito fervore. Egli infatti non illustra Dante per sé, a vantaggio della propria arte, ma legge Dante perché il poeta è entrato in lui: come d'altronde già si può avvertire nelle scene infernali della fascia più bassa della cupola del duomo di Firenze.

Contemporaneo in ogni epoca
Altre opere esposte a Torre de' Passeri costituiscono una sorta di prefazione ai disegni della Divina Commedia: tre dipinti sul tema della "Pietà" - uno di Taddeo, due di Federico - e, di quest' ultimo, un San Pietro liberato dal carcere da Raffaello. Ci sono poi, di Federico, alcuni disegni di vario soggetto e d'una limpidezza e invenzione veramente avvincenti. Basti rammentare Morte del primogenito (dove la luce s' insinua in una misteriosa penombra) e Donna con bambino in braccio inginocchiata all' altare (si noti il velo e il mirabile scorcio dell' infante).
"Federico svolse - come ha scritto Luigi Serra - un'attività anche più brillante di quella del fratello. Egli avviò le formule manieristiche alla luce dell'arte del Veronese e dei Bassano. Le sue composizioni hanno una salda e chiara architettura... rivelano inoltre brio decorativo, senso di misura, talvolta gusto della tavolozza". Ma questa rassegna, seguendo la tradizione, documenta la sua passione per Dante; e ne vien fuori un Federico ancora più profondo. È curioso notare come l'Alighieri riesca ad essere contemporaneo in ogni epoca. Se non sbaglio anche Mario Luzi, nel corso d'una recente intervista, ebbe a dire che Dante è il più grande poeta contemporaneo di oggi. In questo senso la congiunzione, che ogni volta a Torre de' Passeri unisce il nome dell'artista a quello del poeta, sembra quasi un celato e arguto ammonimento.

“la Repubblica”, 31 ottobre 1993

3.9.19

Brecht. La valigia sempre in mano (Luigi Forte)


Cinquant'anni fa moriva Bertolt Brecht. Per la precisione, il 14 agosto 1956, poco prima di mezzanotte. Nei giorni precedenti aveva dovuto interrompere per un malore le prove del Galilei nel suo prestigioso teatro di Berlino Est, il Berliner Ensemble. Era ormai uno scrittore di fama internazionale, guardato con sospetto a Ovest e osannato a Est. In tempi di guerra fredda gli uni gli rimproveravano il suo caparbio marxismo, mentre gli altri, nel regime di Walter Ulbricht, esaltavano il genio dell'arte socialista.
In realtà il bavarese Brecht, nato ad Augsburg nel 1898, non aveva mai smesso di sentirsi un emigrante, insofferente a qualsiasi forma di rigida ortodossia. In una poesia del 1949 confessò: «Di ritorno da quindici anni d'esilio / son venuto ad abitare in una bella casa,/ (...) Sull'armadio / coi manoscritti c'è ancora sempre/la mia valigia».
Come molti altri, il povero B.B. percorse il difficile cammino dell’esilio portandosi dietro tutte le grandi contraddizioni della storia tedesca del primo Novecento. Negli Anni Venti era stato l'enfant prodige del teatro tedesco, il nuovo drammaturgo di cui tutti parlavano, Non si può pensare alla cultura della Repubblica di Weimar senza L'opera da tre soldi né al declino di quella drammatica esperienza politica senza i song e le ballate brechtiane musicate da Kurt Weill. Tutto ciò appartiene ormai al museo della modernità che riflette fra le luci della ribalta la totale impotenza di una prestigiosa classe intellettuale.
Brecht non ebbe difficoltà a capire che aria tirava: il giorno dopo l'incendio del Reichstag, il 28 febbraio 1933, partì per Praga con la moglie Helene Weigel e il figlio Stefan. Abbandonava la Germania che avrebbe rivisto solo nel 1948, distrutta e sfigurata, per diventare un esiliato: senza patria, senza lingua né identità. Non è un caso che proprio intorno alla straziata icona della Madre Germania ruoti un'ampia riflessione che fa di Brecht, forse proprio grazie alla sua lungimiranza politica, ben oltre i confine nazionali, un «poeta tedesco» a tutto tondo, in una tradizione illuministica che va da Lessing a Marx.
Da Svendborg, Lidingo, Helsinki, «più spesso cambiando Paese che scarpe», egli non smette di scagliarsi contro Hitler e il nazismo con satire, epigrafi, invettive. Di fronte alla lotta si rafforza la sua vocazione pedagogica e il lirico Brecht mobilita il linguaggio, lo condensa in formule che viaggiano attraverso l'etere trasmesse da radio clandestine. E lo piega verso la satira più feroce con testi teatrali come La resistibile ascesa di Arturo Ui e Terrore e miseria del Terzo Reich. Ma, come mostrano anche gli anni del suo esilio americano, i suoi lavori per lo più rimangono nel cassetto. «Insegnare senza allievi/ - recita un suo verso - scrivere senza fama/ è difficile». E non bastano i riconoscimenti che gli giungono da più parti, al suo rientro in Europa, a superare l'esperienza di privazione che fu l'esilio, quella cesura irreversibile, che gli fece dire in una delle liriche più note, A coloro che verranno, che in tempi tanto bui «discorrere d'alberi è quasi un delitto».
Nel dopoguerra il filosofo Adorno gli rimproverò di non aver salvato l'autonomia dell'arte inquinandola con la politica. Certo, schierandosi egli non poté evitare che la parola degenerasse enfaticamente nei toni dell'apologia. Anzi, il poeta vestì i panni del mentore, del vate, perfino del tribuno. Un'esperienza che fa di Brecht uno scrittore molto legato alla sua epoca. I suoi problemi, in gran parte, non sono più i nostri e i pochi decenni che ci separano dalla sua morte sembrano secoli. La fine delle ideologie ha sfocato perfino le sue ambiguità politiche. Non poche negli ultimi anni trascorsi nella ex Rdt, quando cercò invano di conciliare la libertà delle masse socialiste con lo stalinismo del partito. La distanza ha reso caduca una parte delle sue opera, sollecitando, anche a teatro, il recupero delle sue prime pièces, anarcoidi e antiborghesi, come Baal o Nella giungla delle città, in cui egli gioca con la letteratura quasi con vocazione postmoderna.
Del resto già Max Frisch insinuò, a suo tempo, che il Maestro aveva raggiunto l'innocuità di un classico. E Durrenmatt, a metà degli Anni Settanta, rincarò la dose, affermando che Brecht era affascinato dal dogmatismo, tendeva a installarsi in un sistema, senza avvertire i cambiamenti che si andavano preparando, anche per chi continuava a credere nel futuro di una società senza classi.
Col tempo le critiche hanno investito un po' tutto il pianeta Brecht: a cominciare dal suo cinico maschilismo che seppe sfruttare collaboratrici e amanti di grande livello intellettuale come, ad esempio, Elisabeth Hauptmann, Grete Steffin, Ruth Berlau. È pur vero, inoltre, che il suo modo di riflettere sulla condizione umana, specie sulla scena, risulta un po' troppo semplicistico e schematico. Brecht non conosce chiaroscuri, zone d'ombra ed è mosso da eccessivo zelo pedagogico. Ma oggi al suo teatro epico si preferisce, come dimostra l'interesse di Moni Ovadia per Le storie del signor Keuner, il Brecht aneddotico, gnomico, «cinese». Oggi ritorna alla ribalta anche la sua poesia, un immenso, affascinante diario lirico che il Maestro ha proiettato fra le contraddizioni del mondo. L'ha scritta pensando a modelli facilmente fruibili, utilizzando spesso forme del passato, ma con una sensibilità orientata verso la futura società dei mass media. Basti pensare alle Poesie di Svendborg scritte in parte per la radio o al nesso fra testo e immagine nell'Abici della guerra.
Ce qualcosa dunque nel Brecht lirico che resiste al tempo o si modella sul nostro problematico presente. Come l'idea di un nuovo soggetto antropologico, fluido e leggero, ma persistente nel flusso caotico delle metropoli e nei terremoti della storia. È ciò che racconta il Libro di lettura per gli abitanti delle città. Brecht cerca nuovi spazi per un individuo che si confronta con la modernità e con il progresso senza sacrificare l'idea della mutabilità del mondo. Una lezione di dialettica che conserva intatto il suo valore e ben si concilia - nella splendida poesia Il cambio della ruota - con il dubbio e un'urgenza che ha il volto della vecchia utopia. Senza arroganza, ma con il tocco lieve e ironico del saggio che suggeriva: «Non ho bisogno di una lapide senza tomba / ma, se voi ne avete bisogno, / vorrei ci fosse scritto:/ ha fatto proposte. Noi /le abbiamo approvate. / Una simile iscrizione / onorerebbe tutti quanti».

“Tuttolibri La Stampa”, 12 agosto 2006

28.8.19

Libri nella vita. “La farandola di fanciulli sul greto”. Intervista ad Attilio Bertolucci (Elena Marco)



Divoratore di libri, bibliofilo eclettico, Attilio Bertolucci, uno dei grandi poeti del Novecento, ama i libri con la stessa malizia con la quale un gatto si cura del padrone.

Qual è stato il suo primo libro?
Il primo libro di cui ho memoria, rapinato a mio fratello Ugo, ‘internato’ con me nel convitto nazionale Maria Luigia di Parma, e più grande di me che avevo solo otto anni, e dunque più atto a leggerlo, è stato Iolanda, la figlia del Corsaro Nero. Ricordo appena l’incipit, notturno mi pare. Allora, come anche in seguito, ero dalla parte di Salgari. Più tardi però ho sognato anche sulle illustrazioni dei grandi romanzi di Verne del quale peraltro ho un ricordo particolare: i suoi libri piacevano particolarmente ai miei compagni bravi in matematica.

Ci sono libri nella vita di un uomo, soprattutto certi testi letti negli anni della gioventù, che lasciano nella memoria tracce indelebili. Quali sono i suoi libri-totem?
Senza dubbio I fiori del male di Baudelaire, letti una prima volta sulla prima, prosastica, umile traduzione italiana. E riletti di continuo nel testo, tanto che mi accorgo di sapere a memoria versi e versi dei quali mi approprio rinnovando i più tenebrosi. ‘La servante au grand coeur dont vous étiez jalouse, / Et qui dort son sommeil sous une humble pelouse, / Nous devrions pourtant lui porter quelques fleurs. / Les morts, les pauvres morts, ont de grandes douleurs…’. (‘Alla serva dal gran cuore che t’ingelosiva, e che dorme il suo sonno sotto un’umile aiuola, dovremmo qualche volta portare un po’ di fiori. I morti, i poveri morti hanno grandi dolori…’ [trad. di Attilio Bertolucci, ndr]).

Il suo lungo viaggio di poeta è contraddistinto da molteplici letture: lo testimoniano ampiamente gli omaggi che si affacciano nei suoi versi. Quali sono le opere che hanno determinato le tappe più importanti?
Senza dubbi la Recherche, il libro che ho letto tutta la vita; il libro che mi ha inebriato e istruito, soprattutto sull’amore, provocandomi talvolta anche reazioni fortissime di rigetto. L’edizione che possiedo è quella in quattordici volumi degli anni venti, con le copertine bianche consunte e quasi staccate dal dorso, filettate in rosso con il logo ‘nrf’, che ho letto la prima volta; e quella stessa che anche i miei amici, Pietrino Bianchi e Vittorio Sereni, hanno letto. I libri che hanno segnato tappe importanti sono comunque moltissimi e i più disparati. Ma non so sino a che punto mi hanno guidato nel mio viaggio di uomo e di poeta che non è stato rettilineo, determinato, coerente.

Quale libro non è mai riuscito a leggere per intero?
Le storie bibliche di Thomas Mann, troppo lunghe e confuse per avvincere il lettore.

C’è qualche volume che ha smarrito? O qualche testo prezioso che ha prestato e che non le è mai stato restituito?
Se ho smarrito qualche libro confesso di non ricordarmene proprio, forse perché, qualora fosse accaduto, doveva trattarsi di un libro a me non particolarmente caro. Non ho mai perduto invece, malgrado molti traslochi, gli Ossi di seppia acquistati a quattordici, quindici anni in una libreria del centro di Parma, a quei tempi fornitissima. Era un’edizione a fogli chiusi che mi affascinò subito per le prime, sorprendentemente familiari, parole che lessi alzando il lembo di una pagina. ‘La farandola dei fanciulli sul greto’, comincia così uno degli Ossi che mi fece tornare negli occhi l’immagine dei ragazzi sul greto di un fiume, i fiumi dell’Emilia, poco profondi, dal letto largo, piatto, pieno di ghiaia che io amavo molto. Ma può anche darsi che in quell’occasione più semplicemente mi rapì il suono gioioso della parola ‘farandola’. Quella stessa edizione degli Ossi oggi la conservo in un cassetto dell’armadio in corridoio: è la prima ovviamente, datata del 1925 ed edita da Piero Gobetti. È un po’ sdrucita, ma mi si è detto che vale otto-dieci milioni di lire.

Ha mai sognato un libro?
Se pure angosciosissimo, una volta ho sognato Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald. E chissà, forse sarà sulla scia di questo sogno che, più tardi, ho recuperato la boa descritta all’inizio del romanzo e l’ho trasportata nei versi della Camera da letto all’inizio del canto intitolato Le sorelle: ‘L’Europa si risveglia a un altro giorno / doppiata la boa di minio e di cobalto del terzo decennio, / i mari sono fermi in regate indecifrabili / mansuetamente sostitutive di un sole insidiato / tutto il mese dalle formazioni brumose del mattino'.

Quale libro vorrebbe ricevere in regalo?
I libri di Rex Stout, con la casa di arenaria, nella vecchia New York. Per anni questo finissimo scrittore è stato dimenticato; un destino segnato fin dall’esordio con un romanzo sperimentale, Due rampe per l’abisso, pubblicato nel ’29, ingiustamente poco considerato. Oggi finalmente hanno capito che questo scrittore nel suo genere è insuperabile; premierei chi mi procurasse uno dei suoi libri che non ho mai letto.

Quale stagione vivono i libri oggi in Italia?
Una stagione pessima, piena di pubblicazioni inutili e costose; ciò non significa che negli scaffali delle librerie non ce ne possano essere alcuni buoni, o buonissimi. Ma come chiudere gli occhi davanti al fatto che oggi le librerie sono sovraccariche…

Quali titoli consiglierebbe a un apprendista lettore?
Il buon apprendista di solito se li sceglie da sé; tuttavia, nel caso in cui per ragioni pratiche gli fossero sfuggiti, consiglierei Casa d’altri di Silvio D’Arzo, Le spoglie di Poynton di Henry James, le poesie di William Butler Yeats, da leggere in inglese, e ne aggiungerei un quarto, alla pari, le liriche di Antonio Machado; due grandi che non fanno parte della stagione modernista.

Nel sito de “L'Indice dei libri del mese” dal numero di novembre 1995

17.8.19

Il dio selvaggio. Nel laboratorio paranoico della poesia: un ritratto di Alda Merini (Benedetta Centovalli)


“Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta”, ecco la poesia di Alda Merini (Milano 1931-2009), con la quale abbiamo cominciato a fare i conti. Difficile orientarsi nella sua opera che dagli anni novanta si è arricchita di decine di pubblicazioni, edizioni fuori commercio, varianti e inediti destinati ad amici o semplici conoscenti. Nel 2010 è uscito per Mondadori un volume di più di mille pagine dal titolo Il suono dell’ombra, a cura di Ambrogio Borsani, che raccoglie le sue opere in versi e prosa più significative dal 1953 al 2009, ma ancora oggi a dieci anni dalla morte il caso Merini resta aperto. Nonostante abbia avuto autorevoli estimatori fin dalle prime prove poetiche: Spagnoletti, Montale e Quasimodo che la pubblicarono, Romanò, Pasolini, Betocchi, Turoldo, Manganelli, Corti e Raboni che ne parlarono, la sua collocazione negli studi del secondo Novecento resta marginale, mentre continua l’apprezzamento dei lettori verso la sua poesia in un susseguirsi di recital, reading, pièce teatrali, pubblicazioni. Tra le più recenti segnalo la ristampa di una intensa e libera ricognizione del suo lavoro per disegni di Silvia Rocchi, Ci sono notti che non accadono mai: canto a fumetti per Alda Merini (pp. 124, € 18, BeccoGiallo, Padova 2019).
Cresciuta in un ambiente familiare modesto, gli anni della guerra passati alla scuola di avviamento al lavoro, senza studi regolari (fu respinta agli esami di ammissione al liceo), visitata giovanissima dalla poesia e dalla follia (primo ricovero a Villa Turro nel 1947), nessuna appartenenza a correnti poetiche, semmai tangente all’orfismo, fuori da ogni canone letterario, forgiata dalla relazione con Manganelli e dall’amicizia con Maria Corti, a lungo internata in manicomio, sottoposta a ripetuti elettroshock, due matrimoni (Ettore Carniti e Michele Pierri), quattro figlie, riemersa alla scrittura dopo la reclusione e guadagnata negli ultimi anni la popolarità: tutto questo ne ha fatto un’icona pop, un’Anne Sexton nazionale, un’araba fenice, con il rischio di soffocare e ridurre in mitografia la grandezza della sua poesia.
“In me l’anima c’era della meretrice / della santa della sanguinaria e dell’ipocrita”, eppure è impossibile sfuggire del tutto al fascino dell’invenzione del suo mito che salda i suoi versi nella biografia e il racconto biografico nel teatro. Lei, responsabile e consapevole creatrice di quel teatro, teatro come menzogna, come porto sicuro nella ripetizione, come luogo dove tutto dura e ritorna. Si divertiva davanti all’obiettivo fotografico, lo corteggiava, e, quando saliva sul palcoscenico, sapeva coinvolgere e commuovere il pubblico, teneva in pugno la platea declamando i suoi versi. La lunga consuetudine al dolore e all’internamento era stata la sua scuola. Al manicomio era sopravvissuta grazie alla poesia.
Dagli anni novanta ho pubblicato, e in alcuni casi curato, alcuni suoi libri di prose poetiche (La pazza della porta accanto, a cura di Guido Spaini e Chicca Gagliardo, Bompiani, 1995; la ristampa de L’altra verità, Rizzoli, 1997), di aforismi (Aforismi e magie, Rizzoli, 1999) e di poesie (La volpe e il sipario, Rizzoli, 2004). Complici Vanni Scheiwiller, Guido Spaini e Maria Corti nacquero una frequentazione e un’amicizia. Nel mio archivio sono conservate in alcune scatole numerose sue carte dalla calligrafia illeggibile e poesie scritte a macchina (Alda usava la macchina con il nastro consumato e batteva sul primo foglio che restava bianco mentre sugli altri la carta carbone imprimeva i caratteri dei suoi versi); poi decine di piccoli libretti stampati a mano con gusto d’artista da Alberto Casiraghi. Qua e là sugli scaffali della mia libreria ci sono fotografie, tra cui alcuni nudi di Giuliano Grittini, la foto che ci ritrae con Raffaele La Capria al Premio Procida-Elsa Morante dove l’accompagnai nel 1997, un ritratto di Enrico Baj.
Alda golosa di ravioli e di dolci, sempre con la sigaretta accesa in mano, con indosso qualcosa di vistoso, un fiore rosso, una grossa collana, degli orecchini sgargianti, un anello con pietra, una borsa colorata. Alda che compra quello che le piace in duplice copia, spesso per farne dono: due ombrelli a pois, due delfini di peluche, due spille di strass, due poster di Nanni Moretti o di Charlie Chaplin. Alda nella sua casa sui Navigli disordinata e invasa dagli oggetti, dalle fotografie, con il pavimento cosparso di monete, di sigarette, avanzi di cibo, e con i muri che fanno da rubrica telefonica scritta con il rossetto. Alda con il letto disfatto e il ventilatore sempre in funzione, con le lenzuola segnate dalla cenere delle sigarette, il cassettone aperto e il crocifisso. Alda al telefono che detta le sue poesie, che chiama in cerca di compagnia, che racconta di Vanni, di Maria Corti, dell’amore per Manganelli, per Titano, che suona al pianoforte l’Ave Maria di Schubert. Alda su e giù per Ripa Ticinese, da Charlie dove incontrava le persone con la benedizione del grosso alano, al Libraccio dove era di casa, nei negozietti che frequentava, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Naviglio dove si era sposata la prima volta. Ai ritratti degli ultimi anni si sono aggiunte le fotografie delle sue mani scattate da Grittini durante un ricovero all’ospedale San Paolo di Milano. Si vedono solo le mani, lo smalto rosso, la stampella, le lenzuola, le bende, l’anello, la sigaretta, una sciarpa di seta: “O mano bianca sede di mille studiati argomenti / dove l’amore germoglia in gergo di puro pensiero” (La magia delle mani, La Vita Felice, 2007).
Il filo rosso del suo laboratorio paranoico attraversa la sua opera fin dall’inizio, la nutre di un eccezionale sistema metaforico che lavora su opposti inconciliabili (luce e tenebra, eros e misticismo, cristianesimo e paganesimo), ingredienti da sempre indispensabili nella costruzione delle sue poesie. Poesia naturale ed epifanica, dove le letture sedimentano e riemergono in stato di grazia per allucinazioni, per illuminazioni, per strappi. Poesia bruciata su un’adolescenza protratta dei sentimenti, di quel sentire che segna gli anni giovanili e li condanna alla cognizione del dolore, del limite del desiderio, del perimetro carcerario della realtà in cui i sogni si ribaltano e si disfano: “L’adolescenza, periodo mitico e burrascoso, è sempre alla ricerca disperata di un vertice (di un verso) che la possa oltraggiare e al tempo stesso difendere” (Nota dell’autrice a La presenza di Orfeo). Poesia “eroica”, in lotta con il destino e che sublima la tragedia in canto, il mito in profezia.
Ma al fondo, quella di Merini, è nuda poesia d’amore, ogni suo verso si accende nel tentativo di affermare sull’angoscia, sulla sofferenza, sulla follia, la forza dirompente del dirsi e dell’amare. Inferno e felicità coesistono in una miscela esplosiva. Tutto si trasforma e assume i caratteri del mito, si trasfigura, esce dall’ordinario e cresce a dismisura, lambisce il sublime e ritorna al passo svelto e comune della vita. Come un ictus, il verso ferisce, si increspa e poi si distende.
Cancellata dalla memoria letteraria per i ripetuti ricoveri in manicomio (1965-1978), Alda Merini non ha mai tradito la poesia nonostante gli affronti del destino. La sua produzione è scandita in due tempi: prima e dopo l’internamento. Alla prima fase, dopo l’esordio a sedici anni, appartengono La presenza di Orfeo (Schwarz, 1953), Nozze romane (Schwarz, 1955), Paura di Dio (All’insegna del pesce d’oro, 1955) e Tu sei Pietro (All’insegna del pesce d’oro, 1962). Poi vent’anni di silenzio editoriale fino al 1982 quando su sollecitazione e cura di Maria Corti compaiono sulla rivista “Il cavallo di Troia”, diretta da Paolo Mauri, alcune parti della Terra Santa che solo nel 1984 troveranno un editore disposto alla pubblicazione. La Terra Santa (Scheiwiller, 1984) è il punto di non ritorno, l’acme dell’opera di Merini che si struttura intorno al tema della terra promessa-manicomio: “Manicomio è parola assai più grande / delle oscure voragini del sogno”, “Affori, paese lontano / immerso nell’immondezza, / qui si conoscono travi / e chiavistelli e domande / e tante tante paure”, “Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti”, “Il mio primo trafugamento di madre / avvenne in una notte d’estate / quando un pazzo mi prese / e mi adagiò sopra l’erba / e mi fece concepire un figlio”.
La propensione verso il prosimetro, segno antico della vocazione al comunicare, dà vita a testi in prosa, o a testi misti, a cominciare dal capostipite-gemello della Terra Santa: L’altra verità. Diario di una diversa (Scheiwiller, 1986), “una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni” dell’esperienza del manicomio (Giorgio Manganelli): “Ma il giorno che ci apersero i cancelli, che potemmo toccarle con le mani quelle rose stupende, che potemmo finalmente inebriarci del loro destino di fiori, oh, fu quello il tempo in cui tutte le nostre inquietudini segrete disparvero, perché finalmente eravamo vicini a Dio, e la nostra sofferenza era arrivata fino al fiore, e era diventata fiore essa stessa”.
La spinta all’oralità e un’ispirazione che si fa esercizio quotidiano affidato alla disponibilità di amici-scrivani mutano la consistenza della sua poesia in favore di un dettato sbilanciato verso la prosa, tramato di una maggiore immediatezza e leggibilità. Allo stesso tempo quello che appare come un alleggerimento, una sorta di felice cantabilità, in un’inattesa torsione si fa variazione, approfondimento dell’intonazione, pulizia della voce. Poesia e prosa, nel convivere, accentuano i contrasti del suo versificare, una poesia scissa tra la tensione al canto e la tentazione del racconto, tra un verso perfetto e l’imperfezione tutta moderna e necessaria della prosa. Lo strazio sta nell’inconciliabilità dei due modi. La poesia che, minacciata da se stessa, si uccide con il proprio veleno.
Alcuni testi poetici degli anni ottanta saranno raccolti in una nuova edizione arricchita Terra Santa 1980-1987 (Destinati a morire, Le satire della Ripa, Le rime petrose, Fogli bianchi, Scheiwiller, 1996) e in Vuoto d’amore (Einaudi, 1991), a cura di Maria Corti, mentre l’antologia Fiore di poesia 1951-1997 (Einaudi, 1998), sempre a sua cura, fa il punto sul lavoro di Merini in una introduzione che resta a oggi un testo critico di riferimento.
Gli ultimi dieci anni, all’insegna di una maggiore comunicabilità, sono costellati di sempre nuove pubblicazioni, tra cui segnalerei quelle che, uscite per Einaudi, garantiscono un maggiore controllo nella selezione dei testi, dopo Ballate non pagate (1995): Superba è la notte (2000) e Clinica dell’abbandono (2004), mentre per l’editore Frassinelli escono a cura di Arnoldo Mosca Mondadori alcune raccolte di poesie religiose (poi in Mistica d’amore, Frassinelli, 2008), di cui una scelta si può leggere in Il carnevale della croce (Einaudi, 2009).
Cosa resta oggi della poesia di Alda Merini, al netto dei detrattori e delle pesanti scorie di una difficile biografia di donna? La materia incandescente e urticante, assoluta, intatta e senza tempo, fatta di vertici e cadute, dei suoi versi, in mai esausta attitudine al canto, all’amore per la vita, al riscatto di un’anima indocile legata naturalmente alla poesia come al proprio respiro: “O poesia, non venirmi addosso, / sei come una montagna pesante, / mi schiacci come un moscerino”.

L'Indice, 31 luglio 2019

16.8.19

I nuvoloni di Franco Fortini, un antagonista di se stesso (Mario Luzi)


Questo è l’intervento che Mario Luzi inviò alle giornate di studio di Siena su dieci inverni senza Fortini 1994-2004, pubblicato su “l'Unità”. (S.L.L.)
Franco Fortini

Cari amici e compagni di vita e di studio, se ripenso a Franco Lattes che poi la sacrosanta cautela attingendo, credo, alla nomenclatura domestica mutò in Franco Fortini, lo rivedo nel punto in cui primamente lo conobbi, cioè sulla soglia della cattedrale di Volterra nella quale io entravo mentre lui ne usciva. Ci furono saluti disinvolti, ma seri, non proprio goliardici. Già in quegli anni giovanili aveva assunto o meglio aveva manifestato una connaturale intrinseca aria di antagonista.
Mario Luzi
Non ci frequentavamo né regolarmente, né spesso. Affacciandoci più o meno negli stessi anni al paese letterario, era andato a collocarsi in un gruppo di giovani il cui orator era Giacomo Noventa: una piccola pattuglia prossima, ma attestatasi come rampogna vivente, al simultaneo «tertuliare» degli scrittori già noti o in erba intorno a Bonsanti, a Leria, Montale, Gadda, eccetera. Era evidente in loro un disagio morale e civile, mi rimaneva confusa invece la loro implicita velleità.
Credo che non ci fosse miglior lettore delle cose che scrivevamo per le distinte riviste - La riforma letteraria lui, e Letteratura io, poniamo - di quanto lo fossimo reciprocamente noi due.
Devo a lui le più acute analisi, specialmente formali. La sua conoscenza della retorica era agguerrita, la sua sensibilità viva e dunque era un piacere ascoltarlo o leggerlo. Sapeva davvero apprezzare i pregi fattuali di un testo e spesso cogliendo i movimenti interni. Questo fece più volte con me, mai però lo trovai disposto a mandarmela buona tutta quanta. Una parte difettiva incombeva sul suo consenso: ed era sua e mia, certo, ma difficile a definirsi e a circoscriversi.
Tralascio qui le differenze «politiche». Non era così sciocco, come non lo era Pasolini con il quale collaborò in un certo periodo, da credere che l’introversione ermetica, se vogliamo così chiamarla, fosse indolore e indifferente ai traumi della storia. Tuttavia su questo lato della vicenda pesava un turbamento di umore, una difficile stonatura. Fortini era tutt’altro che chiuso o negato alla interiorizzazione perfino capillare del mondo, lasciava del resto affiorare con un tocco di struggimento il suo incontro con la realtà non realistica ma primaria e in fieri come accadeva ai poeti da lui prediletti, però con una sorta di dispetto da antagonista anche di se stesso. C’era in Franco qualcosa contro di lui.
Proprio in questa nube di malo umore ci siamo scambiati qualche battuta non velenosa ma asprigna. La amicizia e la attenzione non sono mai venuti meno, avevamo alla lunga bisogno di quella differenza. Ne ha poi dato ragione egli stesso nella ultima raccolta di versi. C’è voluta tutta una vita di vittorie effimere e di recriminazioni e abbandoni nel campo del magistero e del confronto ideologico per arrivare a Composita Solvantur dove appunto sembra siano medicate le sue lacerazioni. Talora a ritroso mi chiedo in questi anni catastrofici: «Infine, qual era la materia del contendere?». Credo, Franco, che possiamo sorriderne.

l'Unità, 14 ottobre 2004

11.8.19

La rabbia, il canto e il sorriso del popolo (S. L L.)


Sto aggiustando la traduzione di una poesia d'amore dell'uruaguagio Mario Benedetti, che voglio "postare" nel blog che alimento e si intitola Bienvenida (Benvenuta). C'è un passaggio che fa "sonrìe y rabia y canta como pueblo": "Rabiar" vuol dire "arrabbiarsi, infuriarsi, sbraitare, protestare ecc". Cercherò la traduzione più opportuna, ma voglio qui comunicare un pensiero laterale, una riflessione amara.
Nel nostro povero paese il popolo continua ad urlare di rabbia, ma non canta e non sorride. Sì è incupito ed incattivito e perciò non sa più né cantare né sorridere. Piuttosto, spinto ad odiare, odia. Odia i migranti, gli stranieri, per esempio, e spesso aggiunge all'odio il pregiudizio di razza. Odia, spesso ancora di più, i politici, i sindacalisti, gli intellettuali di sinistra, nella sua rappresentazione tutta gente che ha la vita comoda tra agi, viaggi ed amori, e niente sa della fatica e della guerra quotidiana del guadagnare. Alla base di quest'odio c'è la disperazione, nel senso proprio della mancanza di speranza, la convinzione che in pochi ce la fanno ("uno su mille" dice la canzone). Tutto il contrario dei tempi in cui molti popolani pensavano che "il popolo unito non sarà mai vinto" e che sulla forza dei popolani che facevano massa fondavano la speranza di un avvenire migliore per se stessi e per tutti gli altri.
Questa mi pare, almeno qui da noi, la situazione. C'è chi la riconduce allo sviluppo per certi aspetti mostruoso di un capitalismo che ha saputo spezzare solidarietà, cancellare diritti e tutele, chi la attribuisce agli imprenditori dell'odio che, soprattutto in politica, lo alimentano per ricavarne potere e ricchezza, chi la fa risalire alle doppiezze e ai cedimenti dei politici e dei sindacalisti del socialismo, agli apparati delle sinistre popolari, i cui esponenti nell'opinione di tantissimi popolani avrebbero strappato per se agi e privilegi senza per nulla curarsi delle sofferenze dei ceti più deboli trascinati nella dipendenza e nell'incertezza, lasciati senza speranza.
Non credo che a questo punto conti granché stabilire quale di questi processi sia stato più decisivo. Certo mi pare che dei popoli che odiano e che si odiano non portano bene a sè stessi e a tutti gli altri. Le loro urla senza canti e sorrisi sanno di barbarie, di regressione.
Chi di ciò è consapevole, se non è impedito dalla sferza del bisogno, potrebbe e secondo me dovrebbe operare come gli apostoli del socialismo ottocentesco: non dedicarsi alla politica o al sindacalismo come una carriera, ma lavorare a rendere consapevoli gruppi sempre più ampi del popolo lavoratore, sfruttato e privato di strumenti di conoscenza e di potere. In tutti i modi possibile, dal doposcuola alla costruzione di battaglie sociali sui temi del lavoro, della salute, del sapere, dell'assistenza, dell'ambiente, del territorio ecc: campagne universali per diritti universali come fu al tempo quella delle otto ore e contro sciagure universali concrete o potenziali, mutamenti climatici, disastri ambientali, guerre, corse al riarmo ecc; e anche lotte locali di città, territori, gruppi anche piccoli. Bisogna riconquistare e far riconquistare la coscienza che "uniti siamo forti", che ci sono ottime ragioni per sperare, lottando con rabbia certo, ma anche cantando e sorridendo. Il sole del socialismo o della socialità o comunque lo si voglia chiamare, può continuare a rischiarare l'avvenire, che resta luminoso, nonostante tutte le tortuosità del cammino, nonostante le sconfitte e gli arretramenti del popolo lavoratore.

stato fb 7 agosto 2019

28.7.19

Gli ospiti di Kathi Kobus: un cabaret nella “belle époque”. Erich Mühsam racconta il “Simpl” di Monaco.

Kathi Kobus
Il Simplicissimus era nei primi anni del XX secolo una rivista satirico-letteraria di Monaco di Baviera, ma anche un cabaret letterario di quella città frequentato non solo dai redattori della rivista, ma da un pubblico di artisti e di anticonformisti. Quella che segue è la rievocazione che del Simpl (così era chiamato dagli habitués) fa, sul finire degli Anni Venti, Erich Mühsam, poeta e cabarettista di idee anarco-socialiste, nelle sue memorie. Nel frattempo aveva fatto a tempo a partecipare, subito dopo la Grande Guerra, alla Rivoluzione operaia di Monaco e alla Repubblica dei Consigli. Quando scrive, tra il 1927 e il 1929, Mühsam  viveva a Berlino, ove dirigeva la rivista anarchica “Fanal”. (S.L.L.)

Una sera al Simplicisimus, prima della Grande Guerra. Archivio Fotografico della Città di Monaco

«Osteria degli artisti» si chiamava come sottotitolo il locale Simplicissimus della signorina Kathi Kobus nella Turkenstrasse a Monaco. All’ingresso c’era una sala non diversa da qualsiasi altra osteria, e dietro c’era il bancone, il pianoforte e il podio. Nel mezzo un corridoio univa le due salette come un canale, un corridoio stretto e lungo, eppure così guarnito di sedie e tavolini che per attraversarlo nelle ore di punta, quando l’attività era in pieno svolgimento, ci volevano mille contorsionismi, e le cameriere che tenevano vassoi e bottiglie come giocolieri sembravano delle vere e proprie acrobate. Il pigia pigia in tutte le stanze diventava pauroso a partire dalle 10 di sera e l’aria che si vedeva ondeggiare piena di vapori, di vino, di fumo di tabacco e di sudore umano spiegava l’attrazione che il Simpl esercitava sul popolo degli artisti schwabinghiani, viziati nei loro gusti. Però era così, tutti ci sentivamo a nostro agio in quel locale che di giorno assomigliava più al negozio di un commerciante d’arte che ad un’osteria per artisti. A tutte le pareti erano appesi dipinti a olio, disegni, acqueforti, incisioni e puntesecche, di ogni misura, di ogni stile, di ogni valore; ritratti, paesaggi, caricature, nature morte di maestri ignoti e di celebrità, che in parte si potevano incontrare di persona seduti sotto le loro opere, in parte rifugiati ormai da tempo nel quartiere delle ville, avendo deciso di tirare una netta linea di separazione fra passato e presente, come era stato per Franz Stuck. Del suo periodo scapigliato c’era rimasto appeso un possente dipinto che incupiva sullo sfondo il nostro tavolo abituale.
Kathi Kobus era una donna intelligente. Senza essere una conoscitrice d’arte, sapeva che talvolta da un qualche talento giovane sconosciuto viene fuori col tempo un genio ammirevole e che gli scarabocchi buttati giù gaiamente da un Michelangelo ventenne sulla tovaglia di carta, cento anni dopo possono valere una fortuna.
Così faceva credito a cuor leggero agli artisti e, quando il debito era abbastanza alto, allora si accordava per un disegno preso dall’atelier del suo cliente, e l’appendeva - quella merce scambiata contro il suo vino aspro - ad una parete del locale, in posizione più o meno visibile. Certo non voglio dire che tutti i quadri e le stampe appesi da Kathi Kobus siano stati donati in cambio di conti da saldare. Sicuramente alcuni artisti che pagavano regolarmente il proprio conto, talvolta, spontaneamente, offrivano in regalo un foglio del loro album alla padrona che ne aveva fatto richiesta. Ad ogni modo tutti i disegnatori della rivista omonima erano presenti sulle pareti del Simplicissimus: Thomas Theodor Heine ed Eduard Thony, Rudolf Wilke e Wilhelm Schuly, Pascin e Karl Arnold. Di Albert Weisgerber vi si trovava un gran numero di eccellenti quadri e disegni fra cui spiccava un notevole ritratto di Ludwig Scharf appeso sul posto che occupava d’abitudine. Josef Futterer aveva donato diverse sue opere e accanto alle silhouette di E. M. Engert stavano appese immagini di animali di Franz Marc e nudi di donna di Max Unold.
Kathi Kobus faceva uso delle doti della propria clientela di poeti dando loro occasione di declamare versi dall’alto del podio, cosa che succedeva generalmente per vanità, spesso per ottenere una mancia e talvolta per pagare i debiti. A volte bastava una bottiglia di spumante offerta gratuitamente per spingere poeti, cantanti e musicisti di ambo i sessi ad esibirsi.
Nei primi tempi non si poteva parlare di un vero e proprio cabaret da Kathi Kobus. Qualcuno degli artisti prendeva in mano la chitarra e si metteva a cantare da solo o con altri al tavolo qualche stornello bavarese, soprattutto Albert Weisgerber ne conosceva tanti. Oppure Frank Wedekind si metteva a cantare, accompagnandosi con il liuto, le sue storie da cantimbanco. Poi veniva Kathi e pregava uno di noi di recitare qualche poesia, oppure l’ungherese Dunajec suonava al violino, scuotendo la criniera, qualche dolorosa melodia strascicata.
Fu poco a poco che Kathi ingaggiò alcuni suoi clienti per intrattenere regolarmente il pubblico. Le paghe variavano. Più di tutti riceveva Ludwig Scharf. Sera dopo sera si trascinava con una sedia in mano al centro del locale per recitare con la sua pronuncia palatina, ma con una verve di grande effetto, sempre le stesse poesie: Proleta sum, Il bambino morto e Tempesta di novembre. Per un periodo di tempo mi fu offerto pranzo e cena in cambio di rime sciolte, ballate e poesie satiriche. Venivano ingaggiate anche donne, la canzonettista Annie Trautner, in seguito una voce di soprano che aveva tutto l’aspetto e il comportamento monacense, ma sfoggiava il nome poetico di Mucki Bergé, per un certo tempo Emmy Hennings che recitava gioielli di gusto piccante, poetessa di vocazione, senza però rendersene conto. Come «poeta della casa» fu ingaggiato il sassone Hans Bòtticher, uomo dotato di talento e di spirito già allora, quando nessuno di noi sospettava che un giorno lo avrebbe reso celebre lo pseudonimo di Joachim Ringelnatz. Mise in poesia anche la stessa Kathi, le piccole vicende del Simpl, noi colleghi e colleghe, l’enorme pigia pigia del pubblico, che ci voleva vedere e sentire, nonché l’ora fatale in cui una volta un principe degli Hohenzollern in carne ed ossa - credo che si trattasse di Wilhelm il maggiore - con vari studenti di una corporazione, in incognito, ma ben in evidenza per i suoi vivaci schiamazzi, cercava nel nostro terreno di caccia il suo diporto. Kathi venne asapere di quel suo nuovo ospite da servire e tirando fuori tutto il suo spirito bavarese ammonì l’illustrissima compagnia con le parole: «e state zitti, prussiani del cavolo!», riducendoli al silenzio. (Cito per sentito dire, perché, quando mi fu accennata resistenza di quegli ospiti, mi misi in sciopero e lasciai il locale per quella sera).
Era ammirevole l’energia con cui la robusta padrona di casa sapeva incutere rispetto nel suo locale. Non sopportava neppure gli eccessi dell’alcol. Se c’era una zuffa interveniva di persona e buttava fuori i responsabili senza vergognarsi di usare le sue mani robuste, se qualcuno opponeva resistenza. Ho visto con i miei occhi come lei buttò fuori due studenti che volevano dare spettacolo: afferrando, uno per mano, i due colletti degli avventori, li sbattè più volte l’uno contro l’altro spingendoli insieme fuori della porta.
Kathi Kobus dava del tu a tutti i suoi avventori. Una lettera che una volta mi spedì dopo uno dei miei viaggi cominciava così: «Onoratissimo signor Muhsam! mi devi ancora più di quaranta marchi...» e alla fine concludeva con «cordiali saluti, tua rispettosa Kathi Kobus», con un post-scriptum che recitava: «Ritorni presto, Erich?».
Quando poi mi rifeci vivo e le chiesi perché mi spedisse quelle letteracce da creditrice, lei rispose con tono amichevole: «Va bene, no? Se sei di nuovo qui!». Quindi tirò fuori il libro dei conti e cancellò tutto il mio debito: «Però devi recitare, eh!», aggiunse poi.
Un giorno Kathi annunciò ai suoi ospiti attoniti di essersi fidanzata con Ludwig Scharf. L’evento fu festeggiato a dovere. La felice fidanzatina ci dispensò una quantità infinita della sua bevanda alla pesca. Dopo l’ora di chiusura legale l’osteria si spostò nell’ampia cucina e Georg Queri, il robusto poeta dialettale bavarese, tenne un discorso ufficiale tutto condito più che di dolci lirismi di salaci scurrilità. Da quel momento però il repertorio del Simpl si arricchì ogni sera di un bacio di saluto inscenato, non appena il poeta metteva piede nel locale, dalle quattro labbra baffute della coppia di fidanzati. Il fidanzamento durò fino alle nozze di Ludwig Scharf con una contessa ungherese; ma questo non cambiò nulla, salvo il bacio, che fu escluso dal programma, mentre la moglie del poeta ricevette il proprio posto accanto a lui al tavolo abituale.
Kathi Kobus però scoprì un nuovo talento artistico, questa volta in se stessa. Si presentò ad un tratto in costume altobavarese e salì sul podio, da cui sciorinò con una serie di poesie dialettali un sacco d’ironia nella sala.
Fino a che Wedekind non raccolse intorno a sé nella Torggelstube una cerchia compatta con esigenze culturali più elevate e accurata ricercatezza, e fino a che i locali concorrenti come il Bunter Vogel e la Bohème non sottrassero alla più autentica osteria degli artisti di Monaco, col suo non troppo variato regime di chiasso, spintoni e cattivo odore, una parte della clientela, nel Simplicissimus di Kathi Kobus circolò l’intellighenzia di Monaco in tutte le sue ramificazioni e affiliazioni; e in certe sere si potevano vedere rappresentati ai vari tavoli gli elementi più eterogenei della letteratura e dell’arte, che nell’entrare si facevano un cenno di amicizia, si salutavano con cortesia o si guardavano ostentatamente in cagnesco. E l’abilissimo e spiritosissimo Edgar Steiger era in grado di commentare salacemente il provincialismo intellettuale di quegli sguardi incrociati. Ad un tavolo stava seduta la redazione della «Jugend» con i suoi più eccellenti collaboratori, quali Fritz Erler, Karl Ettlinger, Franz Langheinrich, A. de Nora, A. M. Eichler o Spiegel; ad un altro tavolo forse Max Halbe con i suoi amici, Karl RòBler, Heinrich Schaumberger o Paul Brany, l’artista delle marionette. Al contempo ci poteva essere nello stesso locale, ma agli antipodi, Josef Ruederer, Friedrich Freska e così via.
Il Simplicissimus fu il luogo dove fra Wedekind e Halbe scoppiò la guerra più volte e più volte fu conclusa la pace.
Là sedevo spesso con la contessa Reventlow e con il futuro ministro delle finanze del governo Eisner, il professor Jaffé, con Otto Gross, lo psicoanalista, e tutto il suo seguito di cui faceva parte anche il pittore Léonard Frank, che ad un tratto si dette alla letteratura e ci sorprese tutti con opere come La masnada e La causa, di cui nessuno sospettava che sarebbe stato capace.
Da lì data anche la mia lunga conoscenza con Bruno Frank e con molti, molti altri, che oggi, dopo aver errato per qualche tempo nell’oceano della genialità, sono approdati nel porto di un solido mestiere borghese o hanno raggiunto vette accademiche. Certo, molti di loro purtroppo ci hanno lasciato per sempre e qualcuno anche dei migliori, come Albert Weisgerber o Franz Marc, trovando una morte in sommo grado inadeguata alla loro indole: sul campo di battaglia. Anche il raffinato, sensibile e sempre un po’ toccante Max Dauthendey, che sedeva spesso con noi nel Simplicissimus, a suo modo è stato una vittima della guerra. L’espressione «morire di crepacuore» mi è sempre sembrata esagerata, ma nel suo caso sembra proprio che corrisponda al vero. A Giava si trovò tagliato fuori da ogni amore e comprensione per il suo inerme spirito di bambino senza disporre dell’energia sufficiente per potersi riprendere dalla nostalgia della patria e della moglie, delle cui cure materne aveva tanto bisogno.
Dauthendey fu solo un lirico, forse ancora più lirico di Peter Hille, per il quale la lirica era l’espressione di una sorta di vagabondaggio. Il poeta di Wurzburg invece era ebbro d’immagini liriche, s’inebriava delle onomatopee, delle metafore, dei simboli e delle similitudini. In una delle sue novelle mi ricordo della descrizione di un tramonto sul mare, dove la sfera del sole appariva come un’arancia sanguigna sbucciata, posata sopra un vassoio di argento opaco.
Dauthendey era l’uomo meno pratico che ci si possa immaginare, ma si illudeva di essere un brillante uomo di affari. Dalla sua Ballata della balia si era ripromesso un successo grandioso. Si trattava di un libro che nello stile dei cantastorie tratteggiava ogni sorta di misteriose avventure dell’anima. Non ci fu però alcun successo per quel libro, così che Dauthendey si fece venire un’idea, quella di recitare l’opera in pubblico. Per l’appunto eravamo sotto Natale e sui muri di Monaco stavano affissi enormi manifesti con l’annuncio: «Recital di ballate di Dauthendey in dodici serate», e addirittura nella Tonhalle che era una grande sala dove entravano almeno 800 persone. L’ingresso costava come un biglietto per il concerto. L’organizzatore era il poeta stesso. Aveva speso una somma ingente per i manifesti e per l’affitto della sala e venne tutto raggiante al Simpl per chiederci se avessimo letto l’annuncio. Le nostre espressioni scettiche non lo irritavano affatto, essendo convinto che le dodici recite - dalla metà di dicembre al primo gennaio - avrebbero registrato il tutto esaurito, che gli avrebbe fruttato un sacco di soldi assicurando al suo libro vendite colossali. Poi ci fu la prima serata di ballate; c’erano al massimo 25 persone in sala di cui nella migliore delle ipotesi forse dieci avevano pagato il biglietto. Dopo la recita, sia il recitante che la maggior parte del suo pubblico andarono al Simpl, e qui si tenne consiglio su come si potevano arginare le perdite di Dauthendey.
Il risultato - se ben mi ricordo era stata una proposta di Korfitz Holm - fu che Dauthendey il giorno dopo fece incollare sui suoi manifesti una striscia verde trasversale con la scritta: «Con la partecipazione di Erich Muhsam e Ludwig Scharf», riducendo le serate da dodici a sei. In quelle serate noi ci trovammo soli di fronte a una sala vuota. Per riparare al disastro Dauthendey si fece venire un’altra idea: affittare un locale - per l’appunto ce n’era uno sfitto di fronte al Café Stephanie - mettersi seduto su di un tappeto dalla mattina alla sera per raccontare fiabe alla gente. Prezzo d’ingresso: 50 Pfennig. Ci volle una fatica d’inferno per distoglierlo da questa nuova idea che sicuramente l’avrebbe condotto ad un fiasco ancora più colossale.
Col tempo l’osteria degli artisti di Kathi Kobus divenne un locale per studenti. La padrona stessa aveva volto il suo interesse ad una nuova impresa, un locale per gite in campagna nella valle dell’Isar, che lei aveva aperto all’insegna del Ristoro di Kathi. Una parte della sua collezione di quadri la trasferì laggiù. Più tardi vendette il Simplicissimus, ma lo rilevò di nuovo, successivamente, e sembra che a tutt’oggi sia ancora là a vendere arte e vino rosso.
Il carattere del locale, mi dicono che si sia trasformato, come si è trasformato il carattere della città, la cui cultura ironica e leggera vi trovò per tanti anni una sua particolare espressione. Forse oggi un ventilatore elettrico fa circolare nel locale un’aria un po’ migliore rispetto a vent’anni fa, ma non son proprio sicuro che l’aria di oggi nel Simplicissimus possa stimolare negli animi artistici ancora quella gioia spregiudicata come quando Isadora Duncan, dopo uno spettacolo pubblico di danza, venne da noi nella nostra cerchia e, sempre più contenta, si sfilò alla fine scarpe e calze per darci con splendida esuberanza un magnifico saggio privato della sua arte.
La morte ha raccolto solerte una grande messe fra gli ospiti di Kathi Kobus. Quelli che ancora sono vivi, vivono dispersi in ogni parte del Paese e del mondo. In quello stretto corridoio pieno di tavoli per passare dalla sala anteriore a quella posteriore non si contorce più nessuno di quelli che un tempo ogni notte sedevano assieme e applaudivano le ragazze che cantavano e imprecavano contro il vino aspro. Alle pareti saranno appesi altri quadri e altre canzoni verranno accompagnate alla chitarra. Il ricordo però rende spesso presente un passato che è più vivo di ogni asettica galvanizzazione di una tradizione diventata ormai estranea.

da Unpolitische Erinnerungen, 1927-1929 in Dal cabaret alle barricate, elèuthera,1999

24.7.19

Socialismo e libertà (Erich Mühsam)


Erich Mühsam, Berlino, 6 aprile 1878 – Lager di Oranienburg, 10 luglio 1934



La libertà è un concetto religioso. Chi è rivoluzionario in nome della libertà possiede una natura religiosa, essere rivoluzionari e non religiosi significa tendere con mezzi rivoluzionari a scopi diversi da quelli della libertà. In altri termini: la risoluzione rivoluzionaria può scaturire da un bisogno interiore, dalla sensazione che la coercizione, la legge e la spersonalizzazione si sono fatte intollerabili - e allora è di natura religiosa; certo, può anche derivare dal basso calcolo della convenienza, quando la rivoluzione si rivela tra tutti il mezzo più inevitabile - e allora è di natura positivista. Il positivista è il bacchettone che va in chiesa rispetto a colui che si nutre di sentimenti religiosi, il negatore dell’impeto, dell’ebbrezza e dell’utopia: il dogmatico e il fatalista, per il quale la libertà rappresenta una fantasia piccolo-borghese e la lotta per l’esistenza un duello studentesco.
Io mi rivolgo a quei rivoluzionari che hanno come scopo la rivoluzione. La libertà è una condizione sociale, il cui fondamento è dato dal volontario consenso degli uomini al lavoro comune, reciprocamente integrato, e alla mutua salvaguardia della vita e dei suoi beni. Lo stato sociale della libertà poggia sull’autodeterminazione dell’individuo, ma l’autodeterminazione dell’individuo incontra i propri limiti nella libertà della collettività; infatti, dove non tutti sono liberi, nessuno può esserlo. La lotta per conquistare questa libertà, inconciliabile con ogni forma di autorità, con le oppressioni legislative, con la disciplina prestabilita o la violenza statalista, è alla base dell’idea religiosa dell’anarchia. Per la sua realizzazione è necessario il sovvertimento rivoluzionario dei presupposti stessi del convivere umano nella società, la creazione della sola base materiale sulla quale la libertà è possibile: vale a dire l’eguaglianza economica. Noi anarchici siamo socialisti, collettivisti, comunisti, non perché vediamo soddisfatte nella ripartizione egualitaria delle prestazioni lavorative e nella suddivisione dei prodotti le esigenze estreme delle aspirazioni umane, ma perché non riteniamo possibile alcuna battaglia in nome dei valori spirituali, per l’approfondimento e la differenziazione della vita - battaglia che costituisce il vero senso della libertà - finché gli uomini verranno al mondo e cresceranno in condizioni di diseguaglianza, finché la ricchezza interiore annegherà nell’indigenza materiale, finché la miseria spirituale e morale potrà travestirsi da ricchezza nel luccichio di una sapienza e di un potere corrotti.La libertà è un concetto religioso. Chi è rivoluzionario in nome della libertà possiede una natura religiosa, essere rivoluzionari e non religiosi significa tendere con mezzi rivoluzionari a scopi diversi da quelli della libertà. In altri termini: la risoluzione rivoluzionaria può scaturire da un bisogno interiore, dalla sensazione che la coercizione, la legge e la spersonalizzazione si sono fatte intollerabili - e allora è di natura religiosa; certo, può anche derivare dal basso calcolo della convenienza, quando la rivoluzione si rivela tra tutti il mezzo più inevitabile - e allora è di natura positivista. Il positivista è il bacchettone che va in chiesa rispetto a colui che si nutre di sentimenti religiosi, il negatore dell’impeto, dell’ebbrezza e dell’utopia: il dogmatico e il fatalista, per il quale la libertà rappresenta una fantasia piccolo-borghese e la lotta per l’esistenza un duello studentesco.
L’eguaglianza non ha nulla a che fare con ciò che oggi si chiama democrazia. L’eguaglianza delle democrazie borghesi si limita a riconoscere come unità votante ogni individuo con diritto di voto. Così la maggioranza di voti è ovviamente garantita a quella classe che, grazie ai propri privilegi economici, domina pressoché l’intero apparato capace di influenzare l’opinione pubblica; inoltre, le istituzioni per le quali il voto viene espresso sono per loro natura deputate a conservare e ad amministrare l’esistente. Se la maggior parte degli aventi diritto votasse con intenti rivoluzionari, gli eletti - qualunque fosse il loro orientamento - non potrebbero far altro nei loro organismi che agire in senso conservativo. Socialismo e libertà non sono praticabili sul terreno della democrazia; ma la democrazia nel senso di libertà ed eguaglianza è possibile soltanto sul terreno del socialismo perfettamente realizzato. Questa autentica democrazia, che equivale al predominio della comunità su se stessa, vale a dire l’autodeterminazione di ogni individuo nella consapevolezza della propria missione sociale, costringe all’eguaglianza economica e sociale, presupposto di ogni altra libertà.

Da Bismarxismus, 1927 in Dal cabaret alle barricate, Elèuthera, 1999

20.7.19

“La straordinaria scioltezza e la costante tensione”. Giovanni Giudici legge “l'Infinito” leopardiano




Non si griderà, spero, al sacrilegio se, qui provocato sul tema Leopardi, mi vedo costretto ad ammettere che la sua poesia resta per me un territorio ancora da conquistare; ne ho Infatti finora subita, più che goduta, la grandezza, nel senso che nell'apprezzarne gli intimi tesori troppo mi condizionano ancora le mitologie della scuola e delle troppe esaltazioni per sentito dire. Conquistare un poeta significa, per me, ripercorrere idealmente insieme a lui il sentiero «astuto e triste» (cito da un verso di Fortini che egli avrà seguito per giungere a quei miracolo che e ogni vera lingua poetica; naturalezza per via d'artificio.
La dicitura del Leopardi poeta (per tacere del filosofo morale) mi si presenta tuttora come un compito assai arduo, tale da intimidirmi (e questo affermo proprio adesso, in un momento che mi trova abbastanza fervidamente impegnato nella rilettura di Dante), sicché vorrei limitarmi a riferire sui due momenti a proposito dei quali mi capita, spiegando, di ricorrere ad esempi desunti dal grandissimo Giacomo: anzi, a voler essere precisi, da un'unica sua poesia, che è L'Infinito.
Ciò accade 1) quando tento di spiegare che cosa debba o possa intendersi per «lingua poetica»; 2) quando tento di spiegare come una poesia deve essere letta.
Nel primo caso tiro in ballo il verso iniziale, ovviamente nell'orecchio di tutti; quel non dimenticabile Sempre caro mi fu quest'ermo colle che è, come ognun vede, costituito da undici sillabe, segnate da quattro accenti forti, sulla terza, sesta, ottava e decima sillaba (e torse da un quinto accento un po' meno torte sulla prima). Si direbbe comunemente che trattasi di un endecasillabo, ma lo non lo chiamerò cosi perché ho diversi dubbi sulla validità della pigra nomenclatura tradizionale. Propongo a questo punto di variare l'ordine delle parole del verso, senza che ne sia peraltro alterato il senso logico e con modesti cambiamenti nello schema ritmico, così da ottenere una serie di varianti che qui scriveremo:
  1. Caro mi fu quest'ermo colle sempre
  2. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  3. Quest'ermo colle sempre mi fu caro
  4. Quest'ermo colle caro mi lu sempre
  5. Caro mi fu sempre quest'ermo colle
  6. Mi fu sempre quest'ermo colle caro
  7. Mi fu quest'ermo colle sempre caro
  8. Caro sempre mi fu quest'ermo colle
  9. Caro quest'ermo colle mi fu sempre
  10. Mi fu caro quest'ermo colle sempre
Eccetera. Ma, come al può constatare, nessuna di queste varianti (benché ciascuna di esse dica la stessa cosa) è lontanamente paragonabile alla suprema e tranquilla e limpida perfezione del verso leopardiano; e ciò si verifica appunto perché una poesia non vale tanto per quel che dice quanto invece (e, aggiungerei, unicamente) per quel che è una successione di suoni, quasi note musicali, in ordinato e rigido rapporto tra loro, per cui ogni modifica nell'ambito di questa particolare fase (il “suono”) della lingua poetica mette in crisi anche il senso di tutto il resto (anche del semplice che-cosa-vuol-dire). Naturalmente a questo nostro giudizio contribuisce anche la nostra memoria di quello che resta il verso scritto dal Poeta; ma oserei dire che anche questa «memoria» finisce per diventare, a livello di lingua poetica, un fattore dinamico di senso. Il secondo caso si riferisce al modo di recitare (o leggere comunque ad alta voce) la poesia in generale. Oggi, forse anche n seguito alle buone letture che alcuni poeti hanno dato del loro versi, la situazione è leggermente migliorata; ma uno degli errori più banali di molti attori (o anche non attori) che recitano versi altrui, era ed è quello di leggere (se così si può dire) secondo la sintassi e non secondo la prosodia, il verso.
L'infinito è un ottimo esempio per dimostrare l'erroneità di una tale impostazione, poiché in questa poesia di soli quindici versi, ben nove sono in enjambement, ossia esauriscono la loro misura prosodica (cioè finiscono) prima che sia compiuto il loro significato logico, per esemplo, a quel verso 4, Ma sedendo e mirando interminati, iI cattivo lettore non resiste alla tentazione di abolire la necessaria e naturale pausa di fine-verso e corre subito ad appiccicare agli interminati la parola spazi che appartiene con ogni evidenza al verso che viene dopo. Perché? Hanno forse paura che gli ascoltatori più semplici si scandalizzino o non capiscano? O sono invece proprio loro, i cattivi lettori, a non capire che una delle fonti di senso della lingua poetica sta proprio in questa divaricazione (di cui l'enjambement non è che un modo) fra ordine sintattico e ordine prosodico e che, nella fattispecie, il lettore che alla parola interminati faccia seguire un ragionevole tempo d'attesa prima di passare con la parola spazi al verso successivo rende alla poesia il giusto servizio, come un bravo esecutore potrebbe renderlo a un petto di musica.
Un cattivo o mediocre lettore non offende soltanto la poesia, ma anche (quando sia vivo e presente) il poeta; e non dimenticheremo a tal proposito l'aneddoto, forse inventato ma certamente significativo, di Dante che, udendo un fabbro ferraio fiorentino declamare sguaiatamente una sua (di Dante) poesia, entrò nella bottega dello sbigottito artigiano e, senza dire ai né bai, cominciò a buttare di qua e di là e anche sulla strada gli attrezzi del suo lavoro. A chi gli buttava all'aria i versi, egli buttava all'aria i ferri del mestiere.
Per ritornare a L'Infinito aggiungerei che è forse proprio la frequenza del suoi enjambements (oltre a diversi altri elementi) che contribuisce a conferire a questa perfetta poesia la sua straordinaria scioltezza e insieme la sua costante tensione; per cui più che esser detta dalla voce del recitante la poesia finisce essa stessa per dire la voce, da oggetto, diventando soggetto, da patiens imponendosi come agens. La sua prosodia, in apparenza semplicissima, è come il pezzo d'opera nell'eseguire il quale anche il più bravo cantante rischia la stecca; quegli enjambements sembrano inventati apposta per costringere la voce del lettore a rifarsi il fiato (e la sua mente a riflettere, a interrogarsi.

"l'Unità” 19 luglio 1986

19.7.19

"Il ragazzo di Nerina". Casa Leopardi: un genio scandaloso in una famiglia bigotta (Ugo Dotti)


A guardar le cose da un punto di vista un po' particolare non si ha difficoltà ad ammettere che la vita di Giacomo Leopardi fu tutto uno scandalo. Per le idee anzitutto: rigorosamente e disperatamente coerenti, atee e materialistiche in un'età pervasa dal riformismo liberale e cattolico, culminanti nella spietata dichiarazione della vanità del tutto. Per l'aspetto fisico del poeta: debolezza d'occhi, debolezza della spina dorsale giunta alla doppia gobba, umor nero e nera malinconia, progressivo disfacimento del corpo fino alla morte (per tisi, per colera, per scompenso cardiaco?). Va da sé che la naturale superficialità degli uomini, e dei benpensanti in particolare, ancor vivo Giacomo, non perse tempo a mettere in relazione le due cose, causa ed effetto: dagli amici fiorentini (a voce più bassa ma maligna, si pensi al celebre epigramma del Tommaseo) al tedesco Henschel che non esitò, seriamente e sgarbatamente, a parlar chiaro: se la filosofia del poeta era tanto tetra, si pensasse alle deformità dell'uomo. Donde la dura reazione del Leopardi, nel 1832: «Prima di morire, io protesto contro queste invenzioni vili e volgari. Prego perciò i miei lettori a provarsi a demolire le mie riflessioni e i miei ragionamenti anziché accusare le mie malattie...».
Ma lo scandalo vero e proprio — il «caso» letterario e di costume esploso ai margini del nostro maggior poeta moderno — scoppiò nel 1845, quando Ranieri pubblicò postumi i primi due volumi delle Opere del Leopardi con la celebre Notizia su di lui. E da allora fu guerra: da una parte i difensori di Giacomo, dall'altra, numerosissimi, i paladini della famiglia, di palazzo Leopardi e di Recana-ti, della gens Leoparda così brutalmente balzata alla ribalta delle scene letterarie e nel chiacchericcio dei salotti in virtù di un membro forse geniale ma troppo scandalosamente ribelle.
Con toni diversi anche se non meno accesi la guerra — almeno sul piano speculativo e mercantile delle «carte» leopardiane promesse e sottratte, vendute e rivendute — dura ancor oggi. Fino all'età del conte Ettore, quando nel brulichio delle camicie nere e tra i labari e le insegne littorie i «resti» del poeta vennero traslati, essa è stupendamente narrata da Mario Picchi in Storie di casa Leopardi, edito da Camunia (364 pp., lire 30.000).
È questo un libro per tanti versi nuovo, nel senso che, dominando una bibliografia vastissima, orchestra con precisione lo scontro tra leopardisti sentimentali e leopardisti positivisti, tra agiografi e critici, con incursioni interessantissime nel mondo medico-psichiatrico del secondo Ottocento e del primo Novecento, senza dimenticare alcune curiosità che hanno una loro voce schietta e plebea. Per esempio quando ricorda un tal Gerardo Laurini che nel gennaio del 1883 era andato a parlare con il fratello di Nerina e gli aveva chiesto se si ricordava di Giacomo: «Lo gobbo? — uscì a dire quello. — Artro che! ... Era lo ragazzo de mi' sorella! Dice che la mise su li jurnali».
Giacomo Leopardi come un ribelle, come un eretico, come un convertito, come un lunatico, come un genio: e Giacomo, anche, come «il ragazzo di Nerina».
Non si direbbe però tutto se non si sottolineasse che il libro di Picchi, pur tanto ironico nel seguire le miserevoli vicende di una storia che è pur sempre la storia di un costume (e persino di una «civiltà»), ha sicuramente un aspetto molto serio e, si vorrebbe aggiungere, una sua voce pensosa e ammonitrice. Quando uno dei più intrepidi difensori di palazzo Recanati, Giuseppe Piergili, per riabilitare Monaldo e il suo «affetto di padre» mette avanti la curiosa teoria che se a Giacomo fosse mancato l'esempio del genitore e il suo amore per i libri, il suo genio avrebbe potuto benissimo rimanere «sterile e infecondo», al di là del sorriso (o dell'indignazione) per tanta stoltezza, noi capiamo che s'è in realtà toccato il punto vero da cui è scaturito il mare immenso degli attacchi e dei contrattacchi. Di qui Monaldo, la tradizione di famiglia, il bon ton, l'amore per !e buone lettere, il conformismo storico e ideologico; di là Giacomo, il ribellismo, l'autentica ispirazione, lo sguardo gettato sul futuro, la voce della libertà e della con-danna. Di qui Tolomeo; di là Copernico. Di qui il passato; di là l'avvenire. Di qui il rispetto della tradizione; di là lo scandalo della provocazione.
Che tale conflitto, reso più aspro dal dissesto economico del patrimonio familiare, sia scoppiato sotto lo stesso tetto, tra padre e figlio, può certamente essere qualcosa che sfiora il dramma e muove la pietà.
Esso è tuttavia ben altro di un normale contrasto tra generazioni; e tra Monaldo e Giacomo, del resto, correvano poco più di vent'anni.
E forse anche per questo Monaldo non si rassegnò, e alle Operette morali del figlio, quasi a sfida, rispose con i Dialoghetti, quei Dialoghetti che Giacomo, ben vivo il padre, non esitò ad infamare. Se quindi Monaldo, se pur tutta in negativo, ha una sua statura cresciuta all'ombra generosa e magnanima del figlio Giacomo, i successivi «eredi» della famiglia, dal conte Giacomo junior al conte Ettore, non sono che maschere ed ombre, attorno alle quali, tuttavia, tra risentimenti e rivendicazioni, miserie e puntigli, si svolsero per quasi un secolo queste “storie di casa Leopardi”.

"l'Unità", 8 luglio 1986

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