24.5.10

"Sciascia? Qua nessuno lo canusce" (Andrea Camilleri)


Su "La Stampa" del 29 giugno 2009 Andrea Camilleri ricorda Sciascia. Più che l'immagine dello scrittore di Racalmuto ne risalta la fisionomia umana del suo paese natio (e di tanti paesi della Sicilia). Un piccolo capolavoro di intelligenza e di ironia (S.L.L.).

A Racalmuto per incontrare lo scrittore.
Ma tutto il paese si prodiga per nasconderlo al forestiero sconosciuto.


Una volta, leggendo il carteggio Pirandello-Martoglio, mi venne d’osservare che in Sicilia l’esercizio dell’amicizia è un’arte assai difficile da praticare. Infatti, tanto più profonda e sincera è l’amicizia siciliana e tanto è più fragile, basta un nonnulla a romperla. Dopo anni d’intesa, di collaborazione, di aiuto reciproco, Pirandello rimprovera a Martoglio una parola. Una sola parola, non una frase, che non andava detta. E da quel momento non si scriveranno più, non si frequenteranno più.
In Sicilia non c’è bisogno di chiedere un favore a un amico, è a questo che spetta il compito d’intuire ciò che l’altro vuole e farlo sollecitamente senza dirglielo. Tra loro non possono esistere zone d’ombra, segreti, ci si è detto tutto come fanno gli innamorati. E tra i due amici, più che la parola, il mezzo di comunicazione più usato è sempre il linguaggio muto, fatto di sguardi e di gesti appena avvertibili.
In questo senso, posso tranquillamente affermare di non essere mai stato amico di Leonardo Sciascia. Tranne che per una cosa: il nostro linguaggio muto funzionò benissimo fin dal primo incontro. I suoi amici veri, quelli della cerchia più stretta, lo chiamavano «Nanà», io mi rivolgevo a lui con «Leonà». E Sciascia mi chiamò sempre per cognome, «Cammillè», con due emme, alla contadina.
Il primo contatto che ebbi con lui fu epistolare. Lavoravo con Angelo Guglielmi al servizio sperimentazione Rai, Angelo era fresco di successo per aver varato Candid camera ed ebbe l’idea di produrre uno sceneggiato su un tema allora ancora inedito, la mafia. Sciascia aveva appena pubblicato Il giorno della civetta e perciò gli scrissi se voleva lavorare per noi. Gli proponevo il soggetto e la sceneggiatura sul caso Notarbartolo, un delitto degli inizi del ’900, che per primo mise in luce il rapporto mafia-banche-politica. Mi rispose declinando l’invito, mi spiegò che la documentazione a lui indispensabile, e cioè la lettura dei vari atti processuali, gli avrebbe portato via troppo tempo.
Qualche mese dopo il Teatro Stabile di Catania mi propose la regia del Giorno della civetta, al cui adattamento stava lavorando Giancarlo Sbragia. Accettai con entusiasmo e cominciai a seguire il lavoro di trasposizione dal romanzo alla scena. Un pomeriggio Sbragia mi fece trovare a casa sua Sciascia che non avevo mai visto prima. L’adattamento era quasi terminato e Sbragia glielo lesse. Sciascia ascoltava in silenzio e ogni tanto mugolava o bofonchiava. All’epoca parlava pochissimo, si esprimeva più che altro con monosillabi. Sbragia, interdetto, a ogni bofonchio s’interrompeva, prima guardava lui e poi me.
Io gli sorridevo rassicurante. Perché, guardando a mia volta Sciascia e lui guardando me, avevo capito che l’adattamento lo soddisfaceva. In quell’occasione gli domandai cosa ne avrebbero pensato i mafiosi del nostro spettacolo. E lui: «Saranno seduti in prima fila ad applaudire, la mafia è vanitosa». Poi, con mio grande rammarico, dovetti rinunziare a quella regia. La portò a termine un altro.
Nella primavera del 1977 tornai per una decina di giorni al mio paese in Sicilia. Un giorno, Sciascia mi telefonò invitandomi ad andarlo a trovare a Racalmuto. Lui abitava fuori del paese, in aperta campagna, una località detta «la Noce». Mi accompagnò in macchina un amico. Ci venne ad aprire una signora che allora non conoscevo, ci domandò cosa volessimo. Mi presentai, risposi che ero stato invitato da Leonardo. Gentilissima, la signora, che era la moglie, mi disse che suo marito era andato in paese, ma che sarebbe tornato al massimo entro una mezz’oretta. Se intanto volevamo accomodarci…
Decidemmo di raggiungerlo in paese, che era poco distante. All’inizio del corso che attraversa Racalmuto, parcheggiammo e scendemmo. Erano le 11 di una mattina di maggio, splendida, luminosa, calda. Lungo i marciapiedi molti racalmutesi avevano sistemato delle sedie e stavano in silenzio a godersi il sole, ad «allucertolarsi».
Mi avvicinai a due quarantenni che parlavano fitto ridacchiando: «Scusino, hanno visto passare Sciascia?».
Alzarono la testa, mi guardarono stupiti. «Come ha detto?» domandò uno dei due.
«Ho chiesto se avevano visto passare Sciascia».
«Non lo conosciamo» mi rispose quello, troncando.
Fatti alcuni passi, nuova fermata davanti a un gruppo di quattro anziani. «Scusino, conoscono Sciascia?».
«Cu?» mi domandò stupito uno.
«Leonardo Sciascia, lo scrittore».
«Iu nun lo canuscio. E voi lo conoscite a un certu Sciascia?» chiese rivolto agli altri tre.
Quelli risposero quasi in coro: «Nonsi, non lo canuscemo».
Giungemmo tra i tavolini all’aperto di un caffè. Due o tre erano occupati. Ci sedemmo un pochino scoraggiati. Arrivò un cameriere.
«Due caffè. Senta, per caso lei conosce Sciascia?» chiesi.
Mi guardò allarmato. «No. Chi è? Perché?».
«Vuole domandare per favore se qualcuno dei signori qui seduti lo conosce e se l’ha visto passare?».
Il cameriere andò verso i tavolini occupati, parlottò a lungo, tornò allargando le braccia. «Non lo conosce nessuno».
La situazione però era cambiata di colpo. Ora tutti ci stavano puntando gli occhi addosso. Era come se avessi fatto domandare loro se avessero visto transitare Oscar Wilde.
Bevemmo il caffè, ci alzammo.
«Torniamo alla Noce?» propose il mio amico dopo un po’.
«Facciamo un ultimo tentativo».
Passava un ragazzino, poteva avere un tredici anni, l’aria molto sveglia. «Senti, tu lo conosci a Sciascia?».
«Sissi» rispose pronto.
«Sai dove possiamo trovarlo?».
«’N farmacia è. Chiddra» fece, indicandocela.
Ci precipitammo nella farmacia. Entrammo, c’era una cliente, aspettammo il nostro turno.
«Desiderano?».
«Cercavamo Sciascia».
Il farmacista non rispose subito. Stette un pezzo a squadrarci da capo a piedi. Infine dovette rendersi conto che non eravamo né killer né giornalisti importuni.
«È andato alla posta».
Ci spiegò dove si trovava l’ufficio postale. Arrivammo col fiatone. Era deserto. C’era un’impiegata dietro uno sportello.
«Cerchiamo Sciascia».
«È uscito ora ora».
Guardammo nei paraggi, non lo trovammo.
«Torniamo alla Noce» dissi, definitivamente sconfitto.
E in quel momento mi sentii chiamare. «Cammillè!».
Era Leonardo che arrancava col bastone verso di noi. Ci abbracciammo. «Andiamo a prendere un caffè» propose.
C’era un bar a due passi. Mi mossi, mi fermò. «No, quello no».
Mi prese sottobraccio e mi fece rifare, a lento, chiacchierando, tutto il corso.
Quando passò davanti ai tavoli all’aperto del caffè, quelli che avevano negato cinque minuti prima di conoscerlo si alzarono e lo salutarono con rispetto. Lo conoscevano benissimo. E lo stesso fecero i quattro anziani e i due quarantenni.
Allora capii che tutto il paese aveva voluto proteggere la privacy di Sciascia da due sconosciuti. E che Sciascia mi stava facendo ripercorrere il corso tenendomi sottobraccio per far sapere a tutti, in questo modo, che io ero un suo amico. Che io non gli portavo disturbo.
Andammo assieme alla Noce. Al momento di accomiatarci, mi invitò a tornare da lui l’indomani, voleva farmi vedere uno scritto pirandelliano che aveva prestato a qualcuno.
«Vengo qui o in paese?».
«Vieni in paese».
Il giorno appresso il mio amico non poté accompagnarmi, presi un taxi. Lo feci fermare all’inizio del corso. I due quarantenni erano ancora lì, sulle loro sedie. Forse avevano passato la notte all’aperto.
Appena mi videro, balzarono in piedi: «’U profissuri ora ora passò! È annato di là!».
E stavolta, guidato dai racalmutesi, ci misi poco a incontrare Sciascia.

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