6.1.11

Ritratto di Stalin (Aldo Natoli)

21 dicembre 1979, nel centenario della nascita di Stalin “la Repubblica” dedicò le quattro pagine centrali a un dossier sullo storico capo dell’Unione Sovietica, intitolandolo Josif, imperatore di tutte le Russie. E da lì che ho recuperato questo denso e acuto ritratto, opera di Aldo Natoli. (S.L.L.)
Di fronte alla miseria e all’oppressione zarista, feudale, capitalistica, Stalin fu un rivoluzionario convinto, ribelle indomito; e per più di quaranta anni combatté senza respiro, certo di muoversi sulle vie inesplorate del socialismo e del comunismo.
Nella spietatezza estrema della guerra civile, alla violenza oppose, immediata e centuplicata, la violenza. Più tardi, con lunga attesa e fortunata astuzia, costruì e montò la macchina strapotente del suo potere, la massima concentrazione di violenza per costruire il suo socialismo. Voleva cancellare l’arretratezza, l’inferiorità, l’abiezione della vecchia Russia; raggiungere e superare i paesi capitalistici; sviluppare nel più breve tempo possibile, a ritmi folli, l’industria perché nell’industria si fondevano i miti del progresso e dell’abbondanza. Volta a volta seppe indurre ed esaltare una missione nuova, storica e nazionale, dei popoli della vecchia Russia.
Virtù e ferocia di questo Principe si aguzzarono nel ferro e nel fuoco di una rivoluzione industriale che ricapitolò i percorsi secolari delle società dell’Occidente. Forse si può dire che quei dieci anni mutarono il corso successivo della storia d’Europa e del mondo, e si può non oziosamente riflettere sul crepuscolo che sarebbe caduto sull’Occidente se i russi non avessero posseduto le armi e l’orgoglio necessari per sconfiggere i nazisti a Stalingrado e per inseguirli fino a Berlino. Ma armi e orgoglio erano serviti a creare la potenza della Russia, non la gloria del socialismo e dell’uomo…
Lenin aveva colpito esattamente la brutalità (la ferocia, avrebbe detto Machiavelli) del personaggio, come pure la sua smisurata brama di potere, l’inesorabilità nell’esercitarlo. Paradossalmente fu proprio Trotzkij, accecato dalla propria superiorità intellettuale, dal disprezzo verso la “mediocrità”, a non comprendere la dimensione reale, la terribilità plebea, dell’uomo che doveva diventare il suo nemico mortale.
Il “socialismo” di Stalin era il rozzo coagulo di venti anni di lotta illegale e ribelle sotto il dispotismo dello zarismo e dell’arretratezza della vecchia Russia. Alla violenza e oppressione dello Stato zarista egli contrappose frontalmente la violenza “proletaria”; all’ignoranza e all’arretratezza il mito della scienza e della tecnica, che si incarnò nell’industria. Dopo la rivoluzione, sulla scorta di parole semplificate di Lenin, il socialismo sarà la fusione del potere assoluto con lo sviluppo più rapido dell’industria, dell’industria pesante. Il cemento fu il terrore prolungato, l’esito l’incorporazione della società civile e delle classi in una nuova struttura sociale dispotica.
Socialismo e comunismo marxiani, rovesciati avevano subito un processo di reificazione: non vi fu estinzione, ma ipertrofia dello Stato, non libera associazione di produttori, ma assoggettamento al potere burocratico, non liberazione dalla subordinazione servile alla divisione del lavoro, ma inserimento nelle nuove gerarchie della produzione. La qualità del “marxismo” di Stalin era tale da giustificare ampiamente il presago diniego di Carlo Marx, quando si schermiva dicendo: “Non sono marxista”.

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