2.1.11

Il ragazzo Lorenzo Milani (di Oreste Del Buono)

A dieci anni esatti dalla morte di don Lorenzo Milani, il 26 giugno 1977, "La Repubblica" dedicò al priore di Barbiana il paginone centrale. Vi si trova, tra l'altro, l'articolo di un grande del giornalismo e della cultura, Oreste Del Buono, che aveva conosciuto Milani da ragazzo e ne era stato insiema amico e rivale. Ne propongo qui un ampio stralcio. (S.L.L.)  
Ritratto del priore, da giovane.
Siamo stati compagni di scuola
Diffidate sempre dei compaesani che sostengono di aver capito già dall’adolescenza, già dalla prima infanzia la grandezza di qualcuno a cui stavano vicini per sorte. Mentono senz’altro. Soprattutto i compaesani del paese angusto, gretto, ottuso che è la scuola. E la scuola di quei tempi, poi, la scuola dei tempi fascisti.
Guardo la fotografia ormai ingiallita di una classe intera e sparuta: tutti ammucchiati con selve di capelli e certe facce intontite, trafitte da un distratto entomologo improvvisatosi fotografo, e Lorenzo Milani ostenta l’unica espressione radiosa, con quelle inverosimili fossette presidianti il sorriso. Ma è un’impressione di oggi, allora lui era uno dei “compaesani” del liceo-ginnasio Berchet a Milano, solo più scorbutico, meno tollerante, più difficile da sopportare del resto della classe.
Il carattere di Lorenzo non era mite neppure prima della sua conversione a prete scomodo. Nella confusione che dominava allora i ragazzi chiamati immaturamente a maturare mentre il paese rotolava verso la guerra e la catastrofe. Lorenzo era uno dei pochi portati ad affermare come superiore a quelle altrui ogni idea che gli venisse in testa. Lui stava per la pittura, io per la letteratura. Cercavamo adepti tra i compaesani del Berchet. Mi battevo al mio meglio, o al mio peggio, che è lo stesso, ma non sapevo quanto sarei potuto resistere anche moderatamente indipendente. Lorenzo era di Firenze, quindi proprio toscano. Essendo io dell’Elba, quindi un mezzo toscano, ero più o meno destinato a cedere. E non mi andava tanto. Dev’essere per questo che in un ormai ingiallito diario di quel tempo ho trovato annotata con neppure celato sollievo la notizia della partenza di Lorenzo per Firenze.
Il paese era ormai rotolato nella guerra e nella catastrofe, vi sprofondava giorno dopo giorno. Il mio diario di allora, addirittura insopportabile per falsità prese in prestito dall’ermetismo per il desiderio di apparire ai miei occhi stessi al di sopra delle righe, per la voluttà di fingermi una coscienza letteraria in assenza di una coscienza politica, è incrinato da troppo rari barlumi di sincerità. Uno, appunto, e probabilmente il maggiore, è rappresentato dall’annotazione relativa alla partenza di Lorenzo. Se ne era andato a Firenze a fare il pittore sul serio. Un rivale che sgombrava il campo.
Poi da Firenze arrivarono le sue lettere e cominciai a sospettare che la sua presenza mi mancasse. Le lettere di Lorenzo sono scritte nel “giovanilese” di allora. Il loro impasto è diverso da quello delle annotazioni del mio diario, ma in un certo modo è ugualmente insopportabile. E’ impegnato lo stesso a barare, a sostenere un altro tono, un tono di baldanza, di sicurezza, di disinvoltura, che eravamo lontani dal possedere. Così, invece che a Carlo Bo o a Oreste Macrì, rifà il verso a Mosca e Metz, invece che al Frontespizio, si ispira prevalentemente al Bertoldo. E’ sotto gli scherzi che va cercata la vera confessione di un’incertezza, di una ricerca. Com’eravamo. Com’eravamo ignoranti.
Era il 1942. Le lettere di Lorenzo erano immancabilmente ferite di nero dalle cancellature della censura. Non che mi rivelassero segreti militari, ma la censura, in mancanza d’altro, si accaniva sulle parolacce, in cui ogni tanto si coagulava la veemenza di Lorenzo, rompendo lo stile bertoldesco.
L’ultima, in ordine cronologico, delle sue lettere conteneva un anticipo sulla sua vita futura. Lorenzo raccontava che in una cappella di campagna di proprietà della sua famiglia aveva trovato un messale. “Sai che la Messa è più interessante dei Sei personaggi in cerca di autore…”. Pareva trattarsi di uno scherzo. Nel 1943 Lorenzo entrò nel seminario maggiore di Firenze.
…Non mentirò: la grandezza di Lorenzo non la intuii neppure l’unica volta che ci siamo visti nel dopoguerra e lui era ormai prete. Non riuscivo anzi a capire come uno potesse essersi fatto prete. Era in convalescenza per malattia, ricordo il suo estremo pallore, non litigammo come ai tempi del Berchet, perché non avevamo molto da dirci. Scambiammo poche parole, il suo sorriso era, però, radioso di quelle inverosimili fossette.
La sua grandezza l’ho capita dopo. E non da solo. Me l’hanno fatta capire gli altri, l’ho trovata nel suo riflesso negli altri.     

Nessun commento:

statistiche