25.1.11

Effetti speciali (di Walter Cremonte - "micropolis", aprile 2001)

Un discorso sulla poesia contemporanea rimanda inevitabilmente alla posizione sostenuta da Umberto Saba nel suo scritto (del 1911) Quello che resta da fare ai poeti: resta da fare la poesia onesta. Ma che cosa può significare oggi questa parola, al di là della banalizzazione delle buone intenzioni?
Un modo di affrontare la questione potrebbe venire considerando, per esempio, l’uso prevalentemente improprio che oggi si fa del termine “ossimoro”. Gli apologeti della guerra contro la Jugoslavia hanno parlato di “guerra umanitaria”; i critici della guerra definiscono quell’espressione, appunto, un ossimoro, cercando in questo modo di toglierle verità. E’ giusto, ma allora perché all’interno della lingua poetica quella figura è efficace, anzi di enorme valenza conoscitiva ed espressiva (pensiamo a Dante, al disdegnoso gusto con cui cerca di spiegare l’inspiegabile, il suicidio di Pier della Vigna), e fuori da quella lingua essa diventa semplicemente un inganno? Oppure è proprio la lingua della poesia ad essere un inganno, a tendere trappole ai suoi ignari cultori? Aveva ragione Francesco De Gregori, quando cantava “i poeti, che brutte creature / ogni volta che parlano è una truffa”? Come si vede la cosa investe profondamente la responsabilità di chi fa la poesia e di chi se ne occupa, e dovremo dunque cercare di capire.
Un aiuto ci viene da un articolo di Tommaso di Francesco, sul “manifesto” del 16 febbraio scorso: “L’ossimoro vale sempre nei due sensi: entrare fuori corrisponde ad uscire dentro”. E’ così: l’ossimoro vero è quello in cui tra i due termini che lo compongono c’è una corrispondenza reciproca, per cui si riverberano l’uno nell’altro dandosi reciprocamente senso. Ho fatto qualche prova: per esempio il titolo bellissimo del libro di Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, è un ossimoro in cui non c’è affatto la sola banale contraddizione dei termini, ma un termine cede significato all’altro e viceversa, producendo significato ulteriore; la luce che illumina il mistero è una luce a sua volta misteriosa, il mistero che si lascia illuminare connota ambiguamente quella luce e forse quella luce misteriosa, quel mistero luminoso non sono altro che la poesia. Così, se prendiamo l’ossimoro più potente della nostra letteratura, la “provida sventura” con cui Manzoni salva dall’oltraggio Ermengarda, ne viene che il dolore ha certo una funzione provvidenzialmente positiva (per il cattolico Manzoni esso non è il parto di un Dio maligno e demente), ma anche che questa provvidenza - che poi dovrebbe essere il senso ultimo di tutto - ha un aspetto assai poco rassicurante: non solo si serve del male, ma è essa stessa male. Se dunque vale che l’ossimoro, per essere vero, funziona sempre nei due sensi, possiamo concludere che “guerra umanitaria” semplicemente non è un ossimoro, perché non c’è scambio possibile tra i due termini, se l’umanità non è tutta ridotta a fantoccio del capitale guerriero, se una par te almeno si sottrae: la migliore, la più umana. E’ dunque un finto ossimoro, un volgare “effetto speciale”, frutto della commistione delle diverse funzioni della lingua a fini mistificatori e di una escrescenza abnorme a tutti i livelli di quella che Jakobson ha chiamato la funzione poetica della lingua. Ecco allora qualcosa che, forse, “resta da fare”: salvaguardare la lingua poetica dall’uso truffaldino della funzione poetica della lingua. insomma rimettere un po’ a posto le cose. Almeno questo.

(Il testo è la trascrizione di un intervento tenuto in occasione di un “Dibattito sulla poesia contemporanea”, Perugia, 23 febbraio 2001, nel corso del quale è stata presentata la collana Il Caradrio - Selezione di poesia. a cura di Luigi M. Reale, Guerra Edizioni, Perugia)

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