11.7.11

Mio padre, il furetto, il falcone pellegrino (S.L.L.)

Falco pellegrino
Erano altri tempi. E la coscienza animalista non aveva avuto lo sviluppo di oggi. Mio padre, per esempio, amava gli animali. Quelli che gli erano compagni di caccia in primo luogo: il cane e il furetto. Sì, si affezionava anche all’orribile e puzzolente mustelide dai denti aguzzi; per lui preparava una zuppetta di latte ogni mattina, riscaldando il bianco liquido, dopo avervi immerso tozzetti di pane, poi travasando il tutto nella scodella dell’animale, che dopo lavava senza schifarsi.
Furetti
Mio padre amava gli uccelli anche: di molti riconosceva il canto e conosceva le abitudini. Già malato d’Alzheimer e di molte cose dimentico, si aiutava a conservare la mente nelle mattinate primaverili dell’Umbria verde, indicandomi questo o quell’uccello, su questo o su quell’albero.
Amava gli uccelli mio padre, ma li cacciava: quelli la cui caccia era permessa e nel periodo in cui era permessa, pernici e quaglie soprattutto. Fu a lungo presidente del circolo campobellese della Federazione della Caccia e il suo impegno nel tempo libero dal defatigante lavoro era sovente quello di organizzare la lotta al bracconaggio.
Non so se rientrasse perfettamente nelle regole, ma era a lui che i guardacaccia portavano la selvaggina sequestrata o sfuggita ai bracconieri, specie quando la ritenevano incommestibile. Gli portarono un airone cinerino, una volta, non molto danneggiato dal colpo di schioppo. Lo fece imbalsamare. Stette a lungo in bella evidenza su un mobiletto del salotto di casa.
Un’altra volta gli portarono un falco, un Falco Pellegrino per l’esattezza. Anch’esso venne impagliato e, con le ali aperte, campeggiava al vertice della scaffalatura nel suo negozio di ferramenta. Ogni tanto mio padre esaltava la bellezza di quell’animale, ne raccontava la velocità e il coraggio. Di tutto ciò mi sono ricordato per caso, leggendo un ritaglio del 19 aprile 2011 da “La Stampa”: un articolo dedicato proprio a questo nobile animale da Carlo Grande. Mi sono commosso.

Appendice
Il falco pellegrino, un guerrigliero da 300 Km all'ora.
di Carlo Grande ("La Stampa" 19 aprile 2011)
Arrivano in queste settimane tra Scilla e Cariddi, a gruppi di trenta, cinquanta: puntini neri in volo planare, in cerca delle «termiche», correnti di aria calda da usare come ascensori verso il cielo, per picchiate vertiginose. Sono i rapaci che attraversano lo stretto di Messina, migliaia di falchi (e cicogne) che migrano verso il Nord Europa dall'Africa, dove hanno passato l'inverno. Spettacolo prodigioso, osservabile solo qui o a Gibilterra o nello Stretto dei Dardanelli, punti obbligati delle loro rotte.
Molti sono falchi pellegrini, animali tra i più veloci della terra: arrivano a 300 chilometri all'ora in picchiata, nove battiti d'ala al secondo, velocità di 160 chilometri l'ora. «Il falco sale con la velocità del pensiero e scende con la velocita' di un destino», dice un proverbio arabo. Se la preda è in terreno «pulito» dà la stoccata, affonda l'unghione nella schiena strappando i tendini delle ali e riprende quota, poi torna a finirla. Cosi' e' la natura. Per nulla «naturali» i bracconieri che aspettano i volatili sullo Stretto, per abbatterli. Il Wwf (che il 29 aprile compie 50 anni, auguri) proprio in questi giorni organizza campi internazionali di volontari e campagne di sensibilizzazione. Il falco pellegrino vive sulle coste, in montagna (ha nidificato anche sulla Mole Antonelliana), in ambienti aperti, rupi alte e inaccessibili e poco disturbate dagli uomini. A volte compaiono solitari, sospesi come Spiriti Santi sul mare, sui tetti delle case. Guerriglieri (siamo prossimi al 25 aprile) un po' come i partigiani, come Otzi, l'antenato che vagava per le montagne con una mise ultra-ecologica, descritta da uno splendido catalogo a cura di Angelika Fleckinger, appena pubblicato da Folio: berretto di pelliccia d'orso, arco di legno di tasso, frecce con la punta di corno di cervo...
Chissà se c'era, 5 mila anni orsono, alleanza fra uomini e rapaci. Difficilmente, ma la falconeria è arte antichissima, praticata dall'imperatore Federico II, un naturalista che scrisse anche uno splendido trattato. Si puo' amare la natura e tenere prigionieri i predatori dell'aria? Federico di Svevia li adorava, viveva e dormiva con loro. Nelle Constitutiones augusteae legifero' per la salubrita' dell'aria, contro chi spaccia alimenti dannosi e getta veleni nell'acqua. Certo avrebbe impedito la strage dei falchi pellegrini sullo Stretto.
www.lastampa.it/grande

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