26.7.11

"Maria Serra che castra galletti". I capponi di Morozzo (di Piero Sardo)

Dal supplemento del “manifesto” “scritto e mangiato” di dicembre 2006, Cestini modello, propongo un ampio stralcio da un articolo di Piero Sardo, di Slow Food. (S.L.L.)
Maria Serra castra galletti dall’età di 14 anni. Lo facevano la nonna, la madre e ora lei è una delle poche depositarie di questa tecnica antica e un poco sadica, che le ragazze più giovani si rifiutano di imparare. Un lavoro di fino, per mani abili e sottili, e quindi prerogativa esclusiva delle donne. Due aiutanti tengono fermo lo sventurato volatile e Maria prima taglia, poi cuce con lo spago. Cinquanta capponi per volta, dieci all’ora o poco più.
Coronamento di un lavoro paziente iniziato in primavera, con la schiusa dei pulcini, tenuti in caldo sotto una rudimentale lampadina appesa a un filo e poi lasciati liberi. Nei primi giorni la loro dieta è a base di mangime (esclusivamente vegetale) e poi sono lasciati liberi: i galletti (e poi i capponi) devono disporre di almeno 5 metri quadrati di spazio all’aperto e sono rinchiusi solo la notte (alcuni si rifugiano addirittura sui rami degli alberi).
La castrazione avviene ad agosto, permettendo ai capponi di crescere per altri 4-5 mesi e di essere pronti a Natale (non si macellano mai prima di 220 giorni).
A Morozzo, vicino a Cuneo, tradizionalmente i capponi si fanno con la razza bionda e, quando sono pronti, hanno una lunga coda nera con riflessi metallici e penne lucide rosso mattone orlate di blu o di verde. Si riconoscono perché sulla testa piccolina non hanno né creste né bargigli e per un particolare che notano soltanto gli allevatori: durante le fiere e le mostre, nelle gabbiette e nelle ceste, i capponi sono placidamente affiancati in coppie, comportamento impensabile per due galli. La carne è morbida, tenera e delicata: i puristi la gustano semplicemente lessa e bagnata nel sale (o al limite accompagnata dal bagnet verde) ma può anche essere ingrediente di piatti raffinati, come il pasticcio o il cappone ripieno. Genitali, creste e bargigli si fanno soffriggere con un battuto di cipolla, rosmarino e pomodoro o si destinano al sugo di frattaglie, per condire il primo piatto più classico della cucina piemontese, i tajarin.
Questa tradizione, un tempo diffusissima (il cappone era un regalo destinato alle tavole di dottori e notabili locali), dagli anni Sessanta inizia a scemare fino a rischiare la scomparsa. Nel 1998 i capponi di Morozzo sono ridotti a un numero esiguo e la storica fiera del paese è quasi compromessa. In pochi anni il Presidio Slow Food, uno dei primi a essere attivati, rilancia il suo allevamento: dai 300 capponi del 1999 si passa a 3000 nel 2002. Un consorzio, nato con 31 allevatori, ora ne riunisce oltre 60 e i macellai del paese con appositi contenitori e ghiaccio secco spediscono capponi in tutta Italia. E la fiera, che si svolge ogni anno il terzo lunedì di dicembre, ha ripreso vigore. I capponi sono tornati a migliaia, esposti per la vendita (e con loro i compratori:macellai, ristoratori, privati di tutto il Piemonte) e per il concorso. La competizione ha riconquistato il suo significato e non è cosa da poco vincere il primo premio, consegnato al proprietario della migliore coppia di capponi.

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