19.7.11

Una scuola del Risorgimento.

Su “il manifesto” del 9 luglio 2011 Gianluca Gabrielli recensisce un libro di Marcella Bacigalupi sui Collegi Convitti Nazionali del Regno di Sardegna tra il 1848 e il 1859, prima ancora dell’unità.
Era un modello scolastico innovativo soprattutto su due punti: rompeva lo strapotere clericale in fatto di istruzione e pareggiava gli insegnanti «nella dignità, nella capacità e nello stipendio». Ho l’impressione che la regressione degli ultimi venti anni, con l’imposizione di un assetto sedicente meritocratico tra gl’insegnanti, renda quel modello non solo interessante, ma in alcuni aspetti esemplare. (S.L.L.)
Il Convitto nazionale Vittorio Emanuele II a Cagliari nel 1915
Ci troviamo all'immediata vigilia dell'unificazione. Sono anni in cui gli «italiani» che parlano italiano sono pochissimi, molto meno del 10 per cento, mentre gli altri usano dialetti diversi che li rendono stranieri già a pochi chilometri dal luogo in cui sono nati. Nelle rare scuole elementari è facile che «il cattivo odore dei piedi» si combini «all'odore di catrame dei figli dei marinai». Siamo cioè alle origini della scuola nazionale. È lavorando su questo periodo storico che Marcella Bacigalupi, con perizia e un amplissimo uso di fonti di tipologia diversissima, ha prodotto Una scuola del Risorgimento, il volume che ricostruisce la storia dei Collegi Convitti Nazionali tra il 1848 e il 1859 (Unicopli, pp. 404, euro 18). La ricerca opera quindi sulla «preistoria» della scuola italiana, nel regno di Sardegna, in un decennio in cui maturano le scelte che produrranno l'organizzazione iniziale della scuola in Italia.
La data di nascita di queste scuole è collegata ai moti del 1848 e alla cacciata dei Gesuiti. In questo contesto il neo ministro Boncompagni, già promotore di innovazioni scolastiche nel decennio precedente, ha la possibilità di utilizzare le strutture espropriate dei collegi Gesuiti per dare forma a una sperimentazione pedagogica di grandi dimensioni. Una scuola per i tempi nuovi, in cui confluiscono novità metodologiche e organizzative di grande rottura con la tradizione. Così i sei Collegi Nazionali divengono, per dieci anni, un vero esperimento pedagogico, un'istituzione scolastica simbolo dei nuovi tempi e dei nuovi ideali.
Non avranno una vita semplice. Creature di un governo moderato, verranno criticati inizialmente da una parte dei democratici, ma soprattutto diverranno il bersaglio della destra ultraconservatrice e clericale: uno Stato che si attivava in campo educativo sottraeva alla Chiesa e alle sue congregazioni parte delle prerogative di cura e controllo dei giovani. Nel tempo i Collegi sapranno raggiungere un equilibrato funzionamento e un ampio riconoscimento pubblico; ciò però non sarà sufficiente a produrre una generalizzazione del modello all'atto dell'Unità; solamente alcune delle innovazioni organizzative e didattiche diverranno parte della fisionomia della nuova scuola nazionale. Probabilmente la realtà delle regioni annesse era troppo complessa e diversificata e il modello del collegio, pur riservato a settori ristretti di classe medio alta della popolazione, risultava economicamente troppo impegnativo.
Ma al di là di questo scheletrico sunto, la ricchezza del libro sta nella capacità dell'autrice di ricostruire minutamente l'articolazione delle contese e dei dibattiti che attraversarono la vita di questi Collegi. Dalla ricerca emerge cioè la complessità dell'istituzione-scuola che funzionava anche allora come un reticolo di svariate dimensioni: politica, sociale, didattica, di genere (maschile), disciplinare (siamo negli anni in cui, formalmente, vengono abolite le punizioni corporali), patriottica, di classe, e così via. Bacigalupi riesce cioè a penetrare nella ingegneria normativa ma anche nella quotidianità didattica, rendendoci partecipi sia del dibattito politico sulla formazione delle élites sia delle diverse posizioni dei professori di fronte «al giovane Cartier che aveva 'fischiato e miagolato in iscuola'».
Facciamo solo un esempio. Fu in quella temperie sperimentale che venne adottata la scelta - innovatrice rispetto alla consuetudine diffusa - di associare il docente agli alunni della propria classe per l'intero corso, mentre in precedenza l'insegnante rimaneva collegato a un solo anno di corso, variando gli allievi. Questa soluzione permetteva due vantaggi: da una parte riconosceva la dimensione relazionale di conoscenza degli alunni come variabile cruciale nella pratica didattica degli insegnanti. Dall'altra insediava parziali elementi di uguaglianza - e quindi di potenziale cooperazione - tra i docenti dello stesso livello di scuola; come si legge in una relazione dell'epoca sintetizzata da Bacigalupi: il nuovo modello consentiva di «pareggiare gli insegnanti nella dignità, nella capacità e quindi, come era giusto e importante, nello stipendio, consentendo che la collaborazione potesse sostituirsi ai malumori».
Fa effetto leggere queste parole di buon senso stilate 160 anni fa. Soprattutto leggerle oggi, in un periodo in cui, i gestori della scuola pubblica, all'opposto, bruciano di passioni meritocratiche e travestono i pesanti tagli economici con l'ideologia della differenziazione retributiva. L'ignoranza - anche storiografica - degli ingegneri ministeriali, tutti impegnati a organizzare l'elargizione di elemosine ai docenti «più meritevoli», non permette loro di comprendere che questo ritorno al passato porta con sé un effetto destrutturante sulla microfisica della relazione di insegnamento e della cooperazione didattica...
Ma questo è solo un esempio tra i molti. Il volume è pieno di interessantissime ricostruzioni che lo rendono utile non solo allo storico specialista ma anche a chi, insegnando o nutrendo interesse per l'istituzione scolastica, pensa ancora che l'esercizio di comprensione del passato sia una delle premesse indispensabili per comprendere il presente e per prendervi posizione.


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