7.7.11

Il disastro della scuola pubblica e il ceto pedagogico (di Daniele Balicco)

Dalla rubrica di Daniele Balicco su “alias”, che mette sottosopra l’Italia proponendo una “antropologia fluida”, recupero le considerazioni che espone a commento di una provocatoria tesi di Goffredo Fofi sulla scuola pubblica. Condivido il giudizio di Fofi su una caduta di motivazioni, di qualità, di impegno da parte degli insegnanti negli ultimi due (o tre) decenni. Ne ebbi una precisa percezione negli anni Novanta, più da padre che da docente, quando uno dei miei figli, nell’immaginarsi un futuro, dichiarò di voler fare il “professore” di scuola media con la motivazione che “non si fa un cazzo” e che, per quel niente che si fa, si guadagnano un sacco di soldi. Poi (per fortuna, ritengo) sulle proprie scelte di vita cambiò idea: ma restava quella valutazione stupefacente e distruttiva che – credo - mai gli allievi avrebbero dato su di me e su tanti miei colleghi sessantottini doc (quelli usciti dall’università tra il 68 e il 72). Balicco corregge, con un’ipotesi suggestiva ma credibile, il ragionare di Fofi. Credo che la discussione possa essere un’ottima base di partenza per un dibattito fuori dai luoghi comuni. (S.L.L.)
Nella sua ultima raccolta di articoli (Zone grigie. Conformismo e viltà nell’Italia di oggi, Donzelli, pp. XIII-224, € 16,00), Goffredo Fofi dedica un capitoletto acuto, ma anche controverso, proprio al disastro della scuola pubblica. L’analisi è impietosa, ma non originale. All’orizzonte si intravedono i soliti fari, Ivan Illich e Pasolini. Note le tesi di fondo: la scuola di massa non serve a nulla, anzi è dannosa. Basterebbero delle buone scuole elementari per tutti e poi, magari, forme intermedie di specializzazione. Sarebbe bene insegnare poche cose, ma fondamentali. Soprattutto, attraverso l’esempio degli adulti e di chi insegna, radicalità e buon senso. E invece, per Fofi, la scuola pubblica è andata in tutt’altra direzione, attirando a sé un ceto pedagogico composto da persone attratte molto più dal posto fisso che da un’autentica «vocazione». Così di fronte allo strapotere dei nuovi media e a una forma di cultura diffusa che poco c’entra con la conoscenza e molto, invece, con «l’asservimento volontario al nonpensiero», una scuola guidata da insegnanti poco formati e senza vocazione si è rivelata, come era prevedibile, argine inconsistente. Qualcosa di nuovo potrà forse arrivare solo quando la massa di precari della scuola inizierà a ribellarsi anzitutto all’umiliazione culturale, e non solo economica, che subisce.
L’analisi di Fofi non mi convince su un punto, che però è centrale. Non credo che il degrado della scuola pubblica possa essere imputato solo al ceto pedagogico; semmai a quanti hanno voluto che quel ceto fosse poco formato, poco selezionato e poco pagato. Nietzsche sosteneva che se si vogliono schiavi è assurdo volerli educare da signori. Che il degrado della scuola pubblica italiana sia anche una risposta politica delle nostre oligarchie alla conflittualità di massa del lungo ’68 italiano? È un discorso lungo.

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