18.5.12

Gianni Rodari e le parole. Un ricordo di Tullio De Mauro

Gianni Rodari
Buona parte degli esseri umani si guarda bene dal pensare troppo alle parole. Parlare è una cosa così naturale! E, in certo senso, è vero: fa parte degli sviluppi ordinari dei piccoli della specie imparare fin dai primi mesi di vita a confrontarsi con le parole, a isolarne il suono tra i tanti che colpiscono l'orecchio, a interrogarsi sul loro valore, a capirne il tono affettuoso o irritato, finché un po' alla volta i piccoli imparano a produrre anche loro parole. E, da allora, le parole accompagnano, come parole dette, ascoltate, lette, scritte, pensate, sognate, ogni momento della nostra vita: la vita degli affetti, delle amicizie e inimicizie, delle opere d'ogni giorno o più ardue, dei pensieri, delle riflessioni banali o altre che siano. Vivere tra le parole è naturale come respirare l'aria, dissetarsi con l'acqua.
E, come per molto tempo quasi tutti gli umani non hanno pensato né all'aria né all'acqua, così in generale non hanno pensato alle parole.
Alcuni pochi però ci hanno pensato: i maestri che insegnano a scrivere, i grammatici, i professori, chi fa titoli e articoli di giornale, chi fa vocabolari, chi studia la struttura e la storia delle parole, e cioè i linguisti. In generale, quanti ci hanno pensato lo hanno fatto con mente analitica. E anche loro avevano le loro brave giustificazioni. Come si scrive questa parola? C'è una parola per esprimere questo concetto? Per tradurre nella nostra lingua una parola straniera? Qual è l'etimologia, la pronunzia, la struttura morfologica di questa parola? Chi ha pensato alle parole lo ha fatto per rispondere a queste domande. E così un po' alla volta la maggior parte dei competenti ha finito col convincersi che è giusto considerare le parole una per una, come farfalle o insetti sotto il vetrino dall'entomologo.
Qua e là, per la verità, negli ultimi cinquanta, sessanta anni, qualcuno ha cominciato ad avere qualche dubbio sulla cosa. Gianni Rodari è stato in sintonia con questi. Attenzione: non voglio dargli per forza una cattedra di filosofia del linguaggio. Non ne ho l'autorità da solo, e poi Gianni si metterebbe a ridere. (Così si mise a ridere quando uscì la Grammatica della fantasia e io mi buttai a scrivere che, con molta grazia e levità, Rodari ci aveva dato un «classico»: l'opinione poi è passata in giudicato, oggi pensiamo tutti che quel piccolo libro sia effettivamente un grande classico, ma allora Rodari, arrivato al giornale al mattino presto e letto il mio articolo, scoppiò a ridere, scrisse un bigliettino e se lo appiccicò con uno spillo sul dorso della giacca. E così andò in giro tutto il giorno per stanze e corridoi del giornale. E sul biglietto c'era scritto: «Attenzione! Io sono un classico».
Dunque, non farò a Rodari il torto di avere un amico presuntuoso che gli vuole per forza dare la cattedra di Filosofo del linguaggio. Ma nemmeno posso tacere che, effettivamente, Rodari ci fa sentire, vivere, capire le parole in una luce nuova e diversa da quella più comune.
Una luce che è la stessa promanante dagli studi e dalle ricerche di linguisti come Saussure, Hjelmslev, Chomsky, di psicologi come Freud, Jung e Vygotskij, di filosofi come Wittgenstein, di semiologi come Prieto e Eco.
Rodari ci fa sentire e sperimentare che alle parole, a ciascuna parola non appartiene l'isolamento, ma, per dir così, la vita di relazione.
Ogni parola è e va capita, usata, sfruttata in quanto è in relazione con le altre prossime e lontane. «Si prendano due parole» dice la voce piana e suasiva di Rodari, «a caso, dal vocabolario o da qualsiasi altro testo stampato... Si gettino le due parole l'una contro l'altra e si osservino le varie combinazioni, si afferrino i suggerimenti espressi dal loro occasionale duello...». E nel Pianeta degli Alberi di Natale si sa bene che successe:"Su quel pianeta hanno inventato un gioco / che si chiama duello di parole. / A impararlo ci vuole poco. / Uno dice, una parola, / per esempio pianta. / Il secondo ne dice un'altra, / per esempio gatti. / Il terzo le mette insieme / e inventa la pianta dei gatti. / Roba da matti. / Ma non è tutto. / Il quarto la deve disegnare, / con un gatto al posto d'ogni frutto. / Al quinto invece tocca raccontare / la storia del contadino / che un giorno va per cogliere le pere / e crede di stravedere / (La storia come continua? / Prova un po' a dirlo tu)".
Se guardiamo non alle parole isolate, ma alle parole messe in relazione, un po' alla volta (ci fa capire e sentire, ci racconta Rodari) germina il senso del rapporto profondo che dalle parole rinvia alle cose, e viceversa, dal mondo al linguaggio, dal linguaggio alla «scuola grande come il mondo». E non basta, non è tutto: se interroghiamo con le parole le cose, queste non solo ci «raccontano segreti» preziosi, ma ci fanno avvertire che parole e cose contano in quanto sono in relazione con noi, ciascuno e tutti insieme. Le parole stanno dentro di noi, nella nostra memoria, nella memoria delle nostre esperienze vitali. Ogni parola diventa viva davvero (e noi con lei) se la sentiamo come nodo di relazioni con altre innumeri parole possibili, con le cose del vasto mondo, con l'intera nostra personalità di «animali...».
A dieci anni di distanza, questo pare essere il succo teorico.

In “Avvenimenti” 25 APRILE 1990

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