19.6.12

1956. Racconto di un anno (S.L.L.)

Il “racconto di un anno” che segue è il testo introduttivo dello “speciale” che nell’ottobre del 2006 “micropolis” dedicò alla rievocazione dell’intervento sovietico in Ungheria a conclusione di un anno iniziato con il XX Congresso del Pcus e la cosiddetta destalinizzazione. (S.L.L.)
“Niente come le canzonette ha il potere magico, abiettamente poetico di rievocare un tempo perduto” – scrisse una volta Pasolini. Il primo scorcio del ‘56 sembra confermare l’aurea sentenza. Ai primi di marzo, a Sanremo, trionfa il motivo che fa: “Aprite le finestre al nuovo sole”. Sembra un inno al “disgelo” che, dalla morte di Stalin, tre anni prima, caratterizza la politica del campo che si chiamava socialista. Era cominciata allora la liberazione di molte vittime delle purghe staliniane, la riconciliazione con lo “scomunicato” Tito, la revisione in quasi tutti i paesi “d’oltrecortina” dei più mostruosi processi degli anni della guerra fredda, che avevano mimato le medievali cacce alle streghe.
Poi al fatidico XX Congresso del Pcus, svoltosi da 14 al 25 febbraio, Kruscev nel rapporto pubblico, mentre denunciava il culto della personalità di Stalin e le violazioni della legalità socialista che ne erano scaturite, lanciava al mondo un messaggio di speranza: “La guerra non è più inevitabile. Si è sviluppata l’Urss, cresce il campo socialista, avanzano i movimenti di liberazione anticolonialisti. Ora è possibile la coesistenza pacifica tra il sistema capitalista e il sistema socialista”. Ma c’era anche un “rapporto segreto”, letto in una seduta riservata ai soli delegati, che in forma esplicita denunciava i crimini di Stalin.
In verità il segreto, se mai vi fu, durò assai poco: il testo filtrò (o venne fatto filtrare) in Occidente ed ampi stralci ne vennero pubblicati in tutto il mondo senza smentite, fino a quando, il 4 giugno, non uscì integralmente sul “New York Time”. Fra i comunisti italiani il mito di Stalin aveva accompagnato molte e speranze di riscatto sociale di operai e contadini in tutto il paese e la sua icona era venerata come quella di un santo: nella base del Pci si produsse uno shock. C’è un racconto di Sciascia, La morte di Stalin, ne Gli zii di Sicilia che restituisce quello stato d’animo assai meglio di un saggio.
Le reazioni propriamente politiche tra i militanti di base furono varie: c’era chi ai capi del Pci chiedeva conto e ragione (“Dov’eravate? Come facevate a non sapere? Perché non ci avete detto?”), chi difendeva la memoria di Stalin anche contro l’evidenza, chi (forse i più) rifiutava di parlarne. Una nota di Raffaele Rossi, allora segretario federale comunista di Terni, riferisce di segretari di sezione che, quando un funzionario fa un accenno a Stalin, interrompono seccati “Parliamo della mezzadria, parliamo dei contratti”.
La minimizzazione (se non la rimozione) era anche la linea di Togliatti. A marzo (senza peraltro riuscirvi) aveva tentato di impedire ad un Comitato centrale di parlare di destalinizzazione per l’imminenza delle elezioni amministrative e la stampa di partito continuò ad ignorare l’esistenza del rapporto segreto. Solo a giugno inoltrato “il migliore” interviene con la celebre (e sopravvalutata) intervista a “Nuovi argomenti”, nella quale spiega che non è solo questione di culto della personalità ma che il sistema aveva conosciuto delle degenerazioni che andavano corrette. Dal XX Congresso egli ricavava soprattutto l’esigenza di una autonomizzazione del Pci: era ora possibile superare la cosiddetta “doppiezza”, congedare l’idea di rivoluzione e affermare una “via italiana” essenzialmente parlamentare.
Ripercussioni della destalinizzazione vi furono anche nel Psi, ove il culto di Stalin aveva avuto corso più ridotto e non mancavano esponenti che da tempo avevano denunciato il regime sovietico nella sua essenza e non soltanto negli epifenomeni. Il leader socialista, Pietro Nenni, già l’anno prima aveva cominciato il distacco dal Pci ipotizzando un incontro con i cattolici. Dopo il congresso restituisce a Mosca la medaglia d’oro del Premio Stalin conferitogli qualche anno prima e ne devolve la parte in denaro alle vittime dei processi staliniani. Una rottura vera e propria con il Pcus avviene però solo in estate, quando l’Armata rossa soffoca i moti operai di Poznan, in Polonia. Nenni, subito dopo, incontra Saragat a Pralognan, in Val d’Aosta, e i due prospettano l’unificazione socialista. Il Pci dà una lettura arzigogolata degli avvenimenti polacchi: è una provocazione alimentata da “malviventi”, cui però hanno partecipato anche “lavoratori non controrivoluzionari” per il malcontento dovuto a errori del partito polacco.
Un’altra area di sofferenza nei confronti della sinistra politica e del suo tradizionale assetto “frontista” è rappresentata dalla vasta intellettualità che più o meno organicamente si collegava al Pci o al Psi. Ne sono testimonianza gl’infuocati dibattiti sul “Contemporaneo” e la complessa ricerca di una rivista come “Ragionamenti”, ove il radicalismo di Fortini convive con il sociologismo tecnocratico di Guiducci. Partecipano al dibattito anche i rappresentanti di alcune eresie “storiche” del comunismo come i trotzkisti: spingono più a fondo la critica allo stalinismo e criticano come “revisionista” la “via pacifica e parlamentare” proposta dal Pci. Fabrizio Onofri, del Comitato Centrale e direttore della scuola di partito di Bologna, partecipe di questo clima, si vede rifiutato su “Rinascita”un intervento critico verso le pratiche e le scelte della burocrazia togliattiana. L’articolo è contraddittorio: oltre alla democrazia interna rivendica un marcato distacco dall’Urss, il consiliarismo operaio e il dialogo parlamentare. Verrà poi pubblicato con il titolo Un inammissibile attacco alla direzione del nostro partito e una feroce risposta di Togliatti.
E’ il contesto nel quale alla ripresa autunnale (27-29 settembre) viene lanciato l’VIII congresso del Pci, che dovrebbe segnare la svolta. Togliatti e, con lui, la quasi totalità dell’apparato centrale e periferico rispolverano “la lotta su due fronti”, quella che Stalin sviluppava “contro il dogmatismo e il revisionismo”. In realtà ci sarà un fronte solo, quello dei “rinnovatori”, essendo ormai poco significativa la resistenza della vecchia guardia legata a Secchia: i suoi esponenti sono bollati come stalinisti, ma usati come “bastoni” contro il dissenso.
A condizionare il congresso saranno soprattutto i fatti d’Ungheria. L’ottobre infatti vede compiersi con esiti opposti due crisi nell’Est europeo. Quella polacca si conclude con l’ascesa al potere di Gomulka, già vittima dello stalinismo, che promette autonomia da Mosca e riforme a favore degli operai. Il clima di libertà e rinnovamento si conserverà per alcuni mesi e a poco a poco si tornerà al vecchio regime. In Ungheria una rivolta, di segno insieme democratico e nazionalista, dai circoli intellettuali si estende agli studenti e agli operai, che si organizzano in consigli. Dopo un primo intervento sovietico il 24 ottobre a Budapest, dopo feroci scontri interni con tanti episodi di giustizia sommaria (soprattutto nei confronti di poliziotti e sindacalisti comunisti), il governo “riformista” di Nagy, forse troppo tardi insediato, proclama la denuncia del patto di Varsavia. Mentre Nenni accentua la condanna del sistema dell’Est europeo e Di Vittorio prende una posizione critica sull’intervento, il grosso dell’apparato togliattiano (ed anche dellabase comunista) appoggia i carri armati che contro Nagy intervengono duramente, incontrando resistenze anche armate e praticando una sanguinosa repressione.
A Roma 101 militanti, soprattutto intellettuali, firmano un documento assai critico: alcuni nomi sono di grande prestigio. Molti dei firmatari usciranno in seguito dal Pci, chi da destra, chi da sinistra. L’VIII Congresso, dall’8 al 14 dicembre, vede un partito compattato e vive soprattutto del caso Giolitti, l’unico dissidente di prestigio ammesso a parlare, sostenitore di un coerente approdo riformista. Escluso dalla lista ufficiale per il Comitato Centrale avrà nello scrutinio segreto una trentina di voti.
La storiografia ufficiale di partito presenterà questo come un grande congresso di svolta. Ma c’era un’altra canzonetta a Sanremo quell’anno: La vita è un paradiso di bugie.

"micropolis" - ottobre 2006

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