28.6.12

La pietosa verità (e la senile mitomania) di Casanova (Leonardo Sciascia)

Giacomo Casanova
Tanto rumore s’è fatto, intorno alla pubblicazione del testo originale della Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, che la lettura dei primi due volumi, ora pubblicati, nella traduzione italiana, è quasi una delusione. E il “quasi” va a onore di Pietro Chiara (l’autore de Il piatto piange e della Spartizione), alle cui cure è stata affidata l’edizione e che, in minuziose note apposte ad ogni capitolo, mette a frutto i risultati raggiunti, in un secolo e più, dai casanovisti; cioè da quegli studiosi che hanno trovato una vera e propria specializzazione nella ricerca e nel controllo dei fatti e dei personaggi di cui il Casanova racconta (e in testa a questi casanovisti è da mettere il diplomatico americano John Rives Childs). Ma bisogna dire che, più o meno, i casanovisti sono convinti della veridicità della Histoire anche se il punto di partenza della loro appassionata ricerca è stato probabilmente quello della diffidenza. La stessa diffidenza che in prima sente qualsiasi lettore della Storia della mia vita: il puntiglio, per così dire, di non essere fatto fesso.
Potenzialmente, dunque, qualsiasi lettore della Storia è casanovista. Solo che ad un certo punto, generalmente, si arriva a questa conclusione di buon senso: che la veridicità o meno delle memorie casanoviste resta al di là di ogni possibile controllo. Perché, per esempio, stabilire la identità di donna Lucrezia, di sua sorella, di suo marito (il che, se non ricordo male, ha fatto Benedetto Croce), è un conto; ma un altro è dar fede a Casanova che davvero, nella locanda di Marino, sia accaduto tra lui e donna Lucrezia quel che spassosamente racconta. E così per ogni altra donna certamente o approssimativamente identificata, per ogni altra avventura.
Il fatto è che Casanova resta, nonostante tutta la buona volontà dei casanovisti, un mitomane. Le sue avventure erotiche, numerose quanto si vuole, sono a livello del prossenetismo, e del contagio venereo; e a parte l’impareggiabile quadro che egli ci offre del costume settecentesco, quel che nella Storia c’è di umano è appunto la sua senile mitomania, la sua senile e oscena immaginazione. Tra l’altro, quel che si era detto di questo testo originale, che Casanova  impiegasse un linguaggio più diretto, più immediato, che insomma chiamasse le cose con il loro nome, non corrisponde al vero: anche qui, come nel testo corretto dal professor Laforgue (che è quello in circolazione finora), i fatti erotici Casanova li rappresenta per metafore insulse come “il tempio”, “il sacrificio”, “l’altare” e così via. E tutto sommato gli abusi del professor Laforgue si riducono ad un tentativo, piuttosto ingenuo, di fare di Casanova un figlio della rivoluzione: di quella rivoluzione che accendeva l’Europa mentre il vecchio avventuriero, nel castello di Dux, un po’ come D’Annunzio al Vittoriale, con oscena pietà di sé, riviveva il suo passato erotico.

Dai Quaderni di Leonardo Sciascia, "L'Ora", 16 gennaio 1965

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