7.3.14

Silone vent’anni dopo: da “Pane e Vino” a “Vino e Pane” (Guglielmo Regozzino)

Ignazio Silone
«I traslochi e i cambiamenti vengono sempre dalla città; i commissari, gli ispettori, i controllori, i vescovi, i direttori delle carceri, gli oratori delle corporazioni, i predicatori gesuiti per gli esercizi spirituali, vengono sempre dalla città, i giornali, le canzonette, "Tripoli bel suol d'amore", "Valencia", "Giovinezza", "Faccetta nera", i grammofoni, le radio, i romanzi, le cartoline al bromuro, vengono anche dalla città. Dalla montagna viene frate Antifona, cappuccino, con la bisaccia per le elemosine, ogni martedì Sciatap per il mercato; e ogni sabato magascià per il sale e il tabacco; da Pietrasecca scende Cassarola, la fattucchiera, con le erbe, i peli del tasso e la pelle delle serpi contro il malocchio; scese una volta da Pescasseroli un filosofo, con le quattro differenziazioni dello spirito; e continuano a scendere gli zampognari, per la novena dell'avvento».
Sono righe di un romanzo di Ignazio Silone, Pane e Vino (Jonathan Cape, Londra, 1937)…
Cosa mette Silone nell'elenco dei poveri prodotti della montagna, stilato dal prete don Benedetto? Infila il filosofo made in Pescasseroli, don Benedetto anch’egli, ma anche senatore e padre della patria: lo specialista delle quattro differenziazioni dello spirito. E poi il cappuccino, frate Antifona. Tra i doni della città vi sono i gesuiti per gli esercizi spirituali. Vent’anni dopo, nello stesso elenco che compare nel rifacimento Vino e pane (Mandadori, Milano, 1957) mancano i gesuiti, il frate si chiama prosaicamente Gioacchino e il filosofo di Pescasseroli è sparito. Silone, non più esule, sempre scontento, ha perso la grinta. Il suo libro non è più veramente contro. Il tempo non è più il presente, ma un imperfetto stinto. Mentre frate Antifona «viene», il povero frate Gioacchino «dalla montagna scendeva»; come dire: adesso non scende più. Ma Silone è il primo a rendersene conto.
In un passo che Claudio Marabini premette opportunamente alle edizioni Mondadori di Vino e pane spiega così il suo punto di vista, un quarto di secolo dopo: «L'avevo scritto subito dopo l'occupazione fascista dell'Abissinia e durante i grandi processi di Mosca inscenati da Stalin per distruggere gli ultimi residui dell'opposizione. Era difficile immaginare una coincidenza più deprimente di eventi negativi… Pertanto il mio stato d'animo era più proclive all'enfasi, al sarcasmo, al melodramma che a una pacata narrazione...»


da un ritaglio de “latalpalibri il manifesto” senza data, forse 1989 

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