4.12.16

Diderot e la professione di intellettuale (Leonardo Sciascia)

Louis - Michel Van Loo, Ritratto di Denis Diderot (1767)
Diderot è la chiave del secolo. Quest’uomo che voleva esser nulla, «ma nulla del tutto», ha come inventato il secolo in quel che noi gli riconosciamo di più proprio, di più originale, di irripetibile. Voleva esser nulla (lo dice all’esaminatore, alla fine dei suoi studi) in rapporto a quel che già c’era, è stato tutto in rapporto a quel che non c’era. Ha inventato una professione: la più libera che si potesse immaginare - e per non averne alcuna. E da questa sua professione, da questa sua non-professione, è venuta l’Enciclopedia. E dall’Enciclopedia una nuova concezione del fare, delle attività umane, del lavoro. Un fare che somigliava al non-fare. Un 'fare con gioia’. Un’utopia, se si vuole. Senz’altro un’utopia, anzi. Ne vediamo la rovina, ma ancora la si persegue.

Già Montaigne aveva detto: «Non faccio nulla senza gioia». Diderot assume questa prescrizione, vi informa la propria vita e cerca di allargarla a quanti più uomini è possibile. L’Enciclopedia è appunto il tentativo di dare agli uomini la gioia del proprio lavoro: la gioia della conoscenza, dell'intelligenza, dell’armonia delle parti nel tutto. La macchina - la meccanizzazione dell’industria - è già, come il cavallo di Troia, dentro la cittadella dell’Enciclopedia -, ma dal louis quatorze all’art nouveau questa specie di redenzione, di stato di grazia, tocca l’artigianato: il mobiliere, l’orefice, lo stuccatore, il tappezziere, lo stampatore, il rilegatore, il marmista, il vasaio, il fabbro ferraio - tutti stanno dentro la voce 'gusto’ (Essai sur le goût dans les choses de la nature et de l’art) di Montesquieu, tomo VII dell’Enciclopedia. Tommaseo riassume: «Il gusto, se non sempre da arte e da studio, almeno da pratica». Ogni oggetto sembra essere stato fatto con gioia. La stessa gioia con cui Parini, indugiando a goderseli, li enumera nella vestizione del giovin signore. Non ama il giovin signore, ma si sente che ama gli oggetti che il giovin signore indossa.

Per non averne alcuna, Diderot ha dunque inventato una professione: quella dell’intellettuale. Nonostante le difficoltà, i pericoli, il carcere, i bisogni, è da credere l’abbia esercitata con gioia. Prendeva tutto sul serio ma con tanta leggerezza da dare l’impressione che non si prendesse sul serio. Scrive La monaca per fare uno scherzo e I gioielli indiscreti come per scommessa e per dare del denaro a una donna che ne ha bisogno. Non si cura di dare alle stampe tutto quello che scrive, e anzi ne dà pochissimo; ma nulla di ciò che ha scritto è 'postumo' se non accidentalmente. Sta dentro il suo secolo come ogni uomo nella propria pelle. Eppure è sopratutto attraverso la sua opera che il secolo XVIII ci raggiunge, ci occupa, ci offre strumenti e misure. Lessing diceva che senza Diderot le sue meditazioni sarebbero andate per tutt’altra via. E Goethe e Schiller, sui Saggi sulla pittura, convenivano che Diderot aveva colto quanto di più alto e intimo è nella pittura e nella poesia. «È un’opera magnifica, ancora più utile al poeta che al pittore, anche se a quest’ultimo appresta un lume possente» (Goethe). E un critico dei giorni nostri aggiunge: «Non sarebbe possibile fare la storia del teatro moderno, del romanzo moderno, della critica d’arte senza porre in rilievo la battaglia innovatrice che Diderot condusse...»

Grande educatore in un secolo educatore.


Da “Il secolo educatore” in Cruciverba, Einaudi, 1983

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