7.12.16

Cronaca di un incidente stradale (Romano Luperini)

Tempo bello, strada solitaria, sempre la stessa, percorsa migliaia di volte, l’auto che scivola tranquilla. Andavo a un appuntamento in ospedale per curare una polmonite.
Ho imboccato il ponte sul fiume, stretto, a senso unico alternato. Sono le 11,10, in anticipo, posso procedere a velocità medio-bassa.
Poi non ho avuto più alcun pensiero. Il sangue mi inondava la faccia e mi scorreva sulla mano sinistra, il fumo usciva dall’airbag afflosciato sul volante. Davanti a me sul ponte una coppia di pedoni, un uomo e una donna, terrorizzati, mi gridavano da lontano di uscire fuori. Stavano attenti a non avvicinarsi: «La macchina sta prendendo fuoco, rischia di cadere nel fiume», urlava lui. «Ma no», dico io ancora seduto al posto di guida, «non è la macchina che prende fuoco, è l’airbag che fuma». Ed esco dall’auto. Dopo qualche passo sul ponte mi volto: la macchina ostruisce la strada sbarrandola, la parte posteriore è rialzata, sollevata sulla spalletta del ponte, sospesa nel vuoto. Mi siedo su un paracarri, mando un sms al medico con cui avevo appuntamento. Intanto è venuta gente, avevano chiamato i carabinieri, i vigili urbani, i pompieri, l’autoambulanza, mia moglie a scuola. Una conoscente mi ha fatto sedere nella sua auto, mi ha allungato dei fazzolettini di carta per tamponare il sangue che usciva dal viso (dal naso?) e da un taglio profondo sulla mano sinistra. Un dolore acuto al torace.
Quasi subito è arrivata l’autoambulanza, si sono accertati che fossi lucido. Lo ero. Allora mi hanno immobilizzato sulla tavola spinale, mi hanno messo intorno al collo un collare protettivo. Ma immobilizzarmi supino è stata operazione inaspettatamente lunga e complessa. Erano quattro o cinque ragazzi, volontari, litigavano fra loro, si lamentavano che i legacci non arrivavano. L’autoambulanza poteva ripartire solo dopo che fossi stato legato nella posizione giusta. E’ passata così una mezz’ora. Su quella tavola, dura, rigida, scomodissima, la schiena che mi doleva anche più del petto. Quando questa operazione si è conclusa, si è fatta avanti la dottoressa, mi ha battuto sull’addome, poi ha detto che doveva fare l’elettrocardiogramma. Ma la macchina non funzionava, il pennino, mi ha informato, non scriveva il tracciato. Allora si è limitata a provarmi la pressione, regolare, 80-130. Finalmente siamo partiti, ogni scossa una fitta, dolorosissima.
Al pronto soccorso per lungo tempo non ho visto nessuno. Mi avevano collocato in una stanza sotto una luce vivida, disteso, immobilizzato sulla spinale. Non potevo guardare intorno, solo in alto un pezzo di soffitto. Dietro di me qualcuno si lamentava ma non potevo vederlo. Mi avevano spogliato, avevo freddo, ma non passava un infermiere. E poi dovevo andare a urinare, e non potevo. Avevo sete, la bocca secca. Sono trascorse così più di due ore, forse tre. Quando ho intravisto una infermiera mi sono lamentato, e lei passando rapida ha risposto: «Non gliel’ho mica detto io di uscire di strada con la macchina». Finalmente è arrivato il medico con cui avevo appuntamento all’ospedale, aveva capito che ero al pronto soccorso ed è venuto a cercarmi. Si è dato da fare per “velocizzare le operazioni”, ha detto. E infatti, dopo un’altra mezz’ora, mi hanno trasportato sempre immobilizzato su quella atroce barella per corridoi gelidi attraversati da correnti d’aria fredda. Meno male che quella mattina andavo in ospedale per finire di curare un polmonite che sembrava in via di guarigione. Arrivati in un’altra sala, mi hanno fatto la radiografia del torace, del collo, del naso e della mano sinistra. e mi hanno riportato al posto di prima. Dopo non so quanto tempo (mezz’ora, un’ora?) un infermiere anziano, con la barba brizzolata, mi ha tolto dalla tavola spinale, mi ha fatto scivolare su un lettino, finalmente respiravo, mi ha dato una coperta, mi ha permesso di andare in bagno. Erano le 16,30, già passate cinque ore dall’incidente. Poi, di nuovo per corridoi ventosi: ecografia all’addome; infine, da un’altra parte, ecocuore. E’ tornato il medico amico che mi ha dato qualche informazione sui risultati, sino allora nessuno mi aveva detto nulla: frattura dello sterno. «Fra poco, vedrai, ti manderanno a casa». Ma non era finita. Mi hanno riportato nella saletta iniziale: altro interminabile tempo morto. Infine arrivano una dottoressa giovane e una infermiera e aiutandosi a vicenda, non senza incertezze e tensioni, saturano la ferita. La dottoressa prende il cellulare e fotografa la mano ricucita. «Mando la foto al mio fidanzato, lui è un chirurgo», dice, «dieci punti», aggiunge soddisfatta. Intanto un altro medico scrive le dimissioni e con l’altoparlante chiama mia moglie che venga a prendermi. Sono le 18,45, sono passate più di sette ore dall’incidente. Nessuno mi ha dato un bicchiere d’acqua.
Durante la notte mi torna la tosse, profonda, cavernosa.
Apparentemente, dicono i carabinieri, non è possibile trovare una causa dell’incidente. Ma Eros e Thanatos, si sa, sono in eterno conflitto fra loro, e, quando Thanatos prevale, il principio autodistruttivo trova comunque la sua strada.

Dal sito “La letteratura e noi”, 3 dicembre 2016.

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